CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

Buona navigazione!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

domenica 6 dicembre 2009

LE VITE INTERROTTE

Visita guidata tra le mura dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario

C'è un auto della polizia, stasera, davanti al teatro. È ferma. Il motore è spento. Gli agenti parcheggiati nei sedili. Aspettano. In sala, il Laboratorio Teatrale dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, presenta Aspettando Godot, l'ergastolo bianco con la regia di Monica Franzoni e Riccardo Paterlini.
Nella scena, illuminata da un piccolo televisore sintonizzato su un canale vuoto, un uomo lucida il pavimento. Si muove un po' avanti. Torna un po' indietro. Sta cantando. È come un juke-box, incantato in loop sulla stesso pezzo. È routine. Scandisce un tempo lento e costante.
Si accende una luce netta che ora lascia intravedere due letti in posizione verticale. Legati in piedi giacciono un Vladimiro e un Estragone qualunque. Sono due compagni di sventura. In quella gabbia, l'ospedale psichiatrico giudiziario, fasciati da un lenzuolo troppo stretto, non riescono nemmeno a girarsi. La luce si spegne per riaccendersi dall'altra parte del palco, da una cella all'altra. Due compagni, Didi e Gogo, vegetano disincantati davanti a un televisore. È il loro unico svago, la loro evasione virtule. Hanno sentito dire che uno su due si salva. Si consolano, lottano con un piede gonfio in una scarpa dai lacci di carta aspettando tutto il giorno che qualcosa si rompa per poterla riparare. Tanto prima o poi tutto si rompe. Se così non fosse potrebbero distruggersi loro, farla finita. Si consolano, ancora, altri Gogo e altri Didi, tutti nell'attesa di andarsene, di lasciarsi morire. Un attesa straziante, interrotta di rado dall' arrivo di un Pozzo. È la guardia, una di quelle non troppo gentili. Porta con se un Lucky, il "nuovo giunto", stravolto dal viaggio nello scomparto buio di un camioncino (un cellulare), ammanettato impotente in preda alle curve. Non parla. Ha i segni dello strozzamento da corda sul collo. Una ferita aperta. Un tentato suicidio. L'agente suggerisce di tenerlo a distanza, di non toccarlo: é un uomo cattivo!
"Ma in tutto questo quanto ci sarà di vero"?
I non-attori dell'O.P.G. vivono in un ambiente stretto e angusto, tre per cella, uno sull'altro. Convivono con una triplice depressione portata dalla malattia mentale, dalla prigionia e dalla colpa di aver commesso un crimine. Sono vite straordinarie che si sono interrotte, in un attimo di follia. Persone private di tutti i diritti, anche quello di essere padri. Il tempo li incatena, non hanno speranze, non hanno sogni. Hanno solo la possibilità di lasciarsi morire nel letto, quell'ergastolo bianco. Da qualche anno grazie al teatro hanno scoperto un'altra via di salvezza. La relazione umana, la socializzazione, la condivisione. Sono ironici ora questi ragazzi e sdrammatizzano la loro atroce condizione senza esitare, decisi e compatti. Sul palcoscenico portano solo parole. Senza musica, senza effetti luce, senza azioni. La loro sala prove è una cappella in cui non c'è niente, nemmeno lo spazio. Recitano leggendo il canovaccio, con naturalezza, come se non fosse più d'uso impararlo a memoria. Un toccante dialogo a più voci tra i pensieri dei carcerati, reso drammaturgia da Paterlini, e il testo di Beckett.
Alla fine dello spettacolo torniamo per strada, provati ma liberi. Anche l'auto della polizia, acceso il motore, ha ripreso la sua corsa verso nuove avventure.
Ma i ragazzi dell' O.P.G. stanno ancora sperando, aspettando il loro Godot: quella libertà che forse non arriverà mai.

Antonio Raciti

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