CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

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DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

lunedì 7 dicembre 2009

LA FOLLIA CREATRICE

Abbiamo incontrato Andreina Garella, regista di Tempo di smetterla, uno spettacolo nato dalla collaborazione tra Festina Lente Teatro (compagnia indipendente fondata nel 1997 dalla stessa Garella e da Mario Fontanini) e l'AUSL Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia, con cui dal 2003 la regista porta avanti un progetto di laboratorio teatrale rivolto agli ospiti e agli operatori dei centri e da cui nasce Stazioni di Confine, gruppo stabile aperto fatto da attori fuori dagli schemi che collaborano con Andreina Garella nella produzione di spettacoli.
La avviciniamo il giorno dello spettacolo, poco prima delle prove, mentre con i suoi collaboratori sta allestendo lo spazio.

Come ti sei avvicinata a questo tipo di teatro, perché l'hai scelto?
«Ho cominciato a fare teatro negli anni '70, a Trieste, dove sono nata, e dove Basaglia ha realizzato la più grande rivoluzione dei nostri tempi, aprendo le porte dei manicomi. L'ospedale psichiatrico di Trieste è stato aperto alla cittadinanza: uno spazio molto bello situato sopra una collina, a San Giovanni, con tanti padiglioni e persino un Teatro; un teatro vero e proprio all'interno dello stesso manicomio.
Il direttore dell'ospedale psichiatrico del'epoca, che succedette a Basaglia, aveva messo a disposizione degli spazi, assolutamente gratuiti, ad alcune realtà cittadine di vario genere, culturali e non, tra cui appunto noi, che eravamo una giovane compagnia teatrale.
Così abbiamo iniziato a lavorare in questo spazio: uno spazio bellissimo, con il parquet per terra, le vetrate enormi. L'unico vincolo che avevamo era quello di lasciare le porte aperte perché chiunque fosse libero di entrare. Nell'ex ospedale psichiatrico vivevano ancora degli utenti per così dire 'cronici', che erano stati rinchiusi per cinquant'anni, avevano subito lobotomia o erano senza famiglia. Queste persone, che potevano entrare ed uscire quando volevano, venivano ad assistere alle nostre prove e così, a poco a poco, si è creata una sorta di relazione. Una relazione continua che ha permesso una progressiva conoscenza.
Da quel momento in poi tutto è successo in maniera naturale. Ho lasciato Trieste per lavorare con altre compagnie di teatro. A Parma, dove per una serie di casualità mi sono trasferita, mi si è ripresentata la possibilità di lavorare a contatto con la psichiatria. Mi hanno proposto di portare avanti un progetto con il Dipartimento di Salute Mentale di Parma e poi, un paio di anni dopo, è nato quest'altro progetto con il Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia che dura ormai da sei sette anni. Potrei dire che in realtà la mia non è stata una scelta ma quasi un percorso obbligato, un naturale progressivo incontro con questa realtà» .

In che modo il 'prodotto spettacolare' vero e proprio di queste esperienze teatrali s'inserisce nel contesto teatrale contemporaneo, in rapporto al 'teatro professionale'?
«Da un punto di vista professionale economico ci sono sicuramente delle difficoltà e delle conquiste da fare, ma sotto il profilo artistico la nostra compagnia ha una sua identità precisa, conquistata in tanti anni di lavoro insieme, frutto di un percorso durante il quale abbiamo maturato una nostra poetica, un nostro modo di stare in scena, di comunicare. Tempo di smetterla, come gli altri spettacoli, non è il frutto di un'esperienza sporadica come può esserla un laboratorio: il nostro è un gruppo stabile e aperto, nel senso che alcuni attori sono con noi dall'inizio, da sette anni, mentre altri sono entrati successivamente. Ma c'è una linea di continuità nel nostro percorso, che ci ha permesso e ci permette di crescere insieme».

Quali sono le differenze, le specificità che hai voluto valorizzare e che costituiscono la vostra autonomia artistica?
«Io lavoro con le persone. Cerco di tirar fuori, di svelare il mistero che ognuno di loro ha. Il mistero che ognuno di noi ha dentro di sé. Lavoro sulla difficoltà. Tento di valorizzare le potenzialità che alcune persone hanno senza averne la consapevolezza, perché spesso sono nascoste dietro alla malattia. Lavoro su quello che la persona mi può offrire.
In questo spettacolo parliamo di follia proprio per andare oltre i luoghi comuni, per ribadire il nostro diritto di essere delle persone con delle fragilità e delle debolezze che devono essere non solo rispettate ma anche valorizzate. Esattamente quello che facciamo nel nostro gruppo, cercando di evitare - mi piace sottolinearlo - ogni forma di paternalismo. Non mi interessa sapere le patologie delle persone con cui lavoro. Io mi rapporto con loro umanamente e se ci sono delle difficoltà le rispetto, come loro rispettano le mie. Grazie a questa sorta di rispetto reciproco, presente all'interno del gruppo, anche le persone che inizialmente avevano più difficoltà sono riuscite, durante il percorso, ad andare oltre i propri limiti, a dare più di quello che apparentemente avrebbero potuto dare. E' questa la magia naturale che si crea facendo teatro e che non ha niente a che fare con la terapia psichiatrica» .

Qual è il tuo metodo di lavoro, il punto di partenza per la creazione di uno spettacolo?
«Non parto mai da un testo già esistente ma da un argomento, un tema che scegliamo di trattare, che abbiamo la necessità di trattare. Intorno a questo argomento poi si forma il progetto poetico.
Ogni spettacolo nasce da una necessità, da un bisogno. Solo dopo diversi anni, con Tempo di smetterla, abbiamo sentito la necessità di parlare di follia. Il trentennale della legge Basaglia, in realtà è stato solo uno spunto, un pretesto.
Non potrei fare uno spettacolo su commissione, portando in scena un testo dato a priori. Anche in questo caso, infatti, al di là dei riferimenti letterari, da Shakespeare a Zavattini, che ci hanno aiutato e guidato in questo percorso, la maggior parte del testo è nato da noi» .

Come nasce il testo? Che peso ha la componente letteraria nell'insieme dello spettacolo?
«Ci sono degli spunti drammaturgici legati all'argomento scelto, degli spunti letterari anche. C'è una drammaturga che ci segue e che fissa le parole sulla carta, man mano che nascono durante il percorso. Spesso sono gli stessi attori a fornire questi spunti che poi vengono trasformati in testo teatrale. Anche il corpo è fondamentale, la presenza fisica, il movimento. C'è moltissimo movimento nei miei spettacoli, moltissime immagini. Non c'è una componente che prevale sulle altre. C'è un progetto artistico condiviso che cresce sviluppandosi organicamente» .

In che modo lo spazio influenza la creazione dello spettacolo?
«Lo spazio condiziona fin dall'inizio la scelta poetica dello spettacolo: prima di tutto, quando lavoro mi immagino uno spazio. E' la prima cosa, sempre. Solo dopo riesco a riempirlo. Per quanto riguarda il luogo fisico della rappresentazione, invece, questa è la prima volta che lavoriamo in un teatro vero e proprio. E lo usiamo vuoto. Precedentemente abbiamo lavorato in luoghi diversi, fuori dal teatro, in corridoi, all'aperto anche. Ci piace lavorare in spazi suggestivi, che entrino a far parte del progetto, della drammaturgia. Lavoriamo sulle ambientazioni più che su scenografie vere e proprie. La scenografia come finzione è in contrasto con la verità dell'essere umano che portiamo in scena» .

Ritieni esista di fatto e sia necessaria la distinzione tra 'teatro professionale' e 'teatro sociale'?
« Non so se il teatro che faccio sia professionale o meno. Per me è teatro. Non mi interessano le classificazioni, non mi riconosco in tutte queste categorie. Io lavoro con attori non professionisti, persone che hanno dei disturbi. Ma con loro faccio teatro, proprio come lo farei con degli attori professionisti. Non faccio teatro terapia. Il teatro al suo interno ha in qualche modo questa sorta di magia per cui può essere anche terapeutico ma non mi pongo questo problema perché non è un ruolo che mi compete. Io faccio semplicemente teatro. Non saprei come altro definirlo».

Alessandra Ferrari

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