CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

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DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

mercoledì 18 marzo 2009

A VOLTE E' MEGLIO SCREARE

Intervista, tra teatro e follia, a Giuliano Scabia
Con spettacoli e testimonianze sul rapporto tra psichiatria e arte, il progetto Out/fuori, organizzato dal Centro di promozione teatrale La Soffitta, ha ospitato Giuliano Scabia, scrittore, regista e pedagogo teatrale. Nella mattinata di studi il suo contributo è stato letteralmente doppio: ha incarnato, Peppe dell’Acqua, psichiatra e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, assente per motivi di salute, leggendo alcuni brani dal suo libro Non ho l’arma che uccide il leone. L’intervento del “vero” Scabia è stato un discreto commento alle pagine del medico, continuatore dell’insegnamento basagliano, che illustrano la situazione della psichiatria italiana, nella quale Scabia ha portato con forza l’esperienza della sua pratica teatrale: nel ’73 il regista penetrò la realtà dei manicomi realizzandovi con i pazienti un laboratorio, nel segno di Marco Cavallo. All’interno di Out/fuori c’è anche un suo spettacolo che rievoca quell’esperienza: La luce di dentro. Viva Franco Basaglia, in collaborazione con l’Accademia della Follia di Claudio Misculin. Nell’ex ospedale di Trieste, proprio nel ’78, quando le sue mura venivano abbattute per effetto del lavoro di Basaglia e della legge 180, Misculin inizia il suo progetto di lavorare con i malati psichiatrici, conducendo numerose esperienze creative e terapeutiche sulla diversità con attori “a rischio”. Mentre i membri della compagnia preparano la scena per la serata nel teatrino dei laboratori DMS, cerchiamo di approfondire questi contributi con Scabia stesso.

Mi ha colpito il titolo di un suo scritto: L’arte non cura niente, compreso nel volume Il tremito. Che cos’è la poesia? del 2006. Che rapporto vede tra arte e terapia?
Se penso ai miei amici artisti, sono quasi tutti finiti male: alcolizzati, suicidi. Tristi. Cos’è che rende allegri? Cosa può scatenare le endorfine? Nel momento in cui giochi – e il teatro è gioco, non lo sovraccaricherei di troppi compiti – stai bene, hai entusiasmo. Il teatro, come la danza, ha bisogno del corpo, e questo, anche per chi non ha problemi, porta sempre a scoprire parti di sé che non conosceva. C’è un ragazzo del gruppo che ha iniziato da 5 mesi, ha debuttato a maggio. Era un sasso: con il lavoro fatto ha iniziato a sapere che aveva le gambe. In questo senso Claudio Misculin lavora tantissimo, con esercizi più o meno difficili, anche acrobatici a volte. Terapia è una parola pericolosa perché comporta dominio (farmacologico, psichiatrico, medico) e dipendenza; una società che chiede tanta terapia è dipendente. Il risultato massimo per un medico è che un paziente non abbia più bisogno della terapia, dell’ospedale. È questo il significato originario di qualsiasi cura: ridare libertà. Ognuno di questi ragazzi ha un suo problema particolare, una sua storia; ma riescono a venire qui da soli, senza essere accompagnati.

Cosa le sembrò, al suo apparire, la legge 180 del 1978 sulla chiusura dei manicomi?
Questa legge, chiamata erroneamente legge Basaglia, è stata fatta dai democristiani con una rapidità inaudita; Basaglia non ha potuto che accettarla e rimboccarsi le maniche per continuare il suo lavoro. Avevo già fatto le mie esperienze nei manicomi, con i pazienti e con l’equipe dei curanti; avvertivo che c’era un enorme movimento che supportava questa scelta. Erano anni duri, durissimi. Stava finendo l’onda bella degli anni di liberazione: con la pazzia delle Brigate rosse, si stava facendo peggio di prima. Non ho mai letto il testo della legge 180: mi sono fidato dei racconti di altri. Con qualcuno ho avuto modo di confrontarmi, per esempio sul ruolo del sindaco nel Trattamento Sanitario Obbligatorio: da un lato l’essere svegliati alle due di notte per decidere un ricovero di qualcuno che nemmeno conosci, dall’altro la funzione di padre della comunità.

Il suo fare teatro l’ha portata a un confronto continuo con diverse tipologie di comunità. Com’era quella del manicomio di Trieste
Nel manicomio c’era un’umanità molto diversa dalle altre, molto simpatica. Ognuno di noi è matto a modo suo: uno suona la fisarmonica, uno sa tutte le canzoni, un altro si muove in un modo tutto suo. Erano una comunità solo perché abitavano lì. Quel manicomio era semiaperto; il luogo centrale era la sala dell’assemblea delle cinque, dove si analizzava la situazione e si parlava anche di politica. Venivano anche i matti, e alcuni se ne andavano quando si facevano discorsi difficili, pieni di termini sinistristico-marxiani. Mi piaceva pensare quella sala come la piazza di un grande paese dove tutti venivano anche senza far nulla. I laboratori a ore, in una istituzione così segnata da vincoli e orari, avrebbero rischiato di diventavate una costrizione: era meglio screare.

Quali riflessioni sulla lingua ha maturato in questa esperienza?
Per lingua intendo la quantità di espressione che uno ha. Se uno che è rigido e bloccato dalla malattia inizia a fare un passo e racconta con il corpo una storia (che intuisci essere quella di Cappuccetto Rosso perché magari la disegnava poco prima), ecco: in quel momento passi la soglia e osservi la lingua di cui è formato. Siamo un sistema linguistico fatto di gesti, parole, ascolti, annusamenti, sguardi: sono coinvolti tutti i sensi. In una comunità che come il manicomio è iperpercettiva – se schiocchi le dita lo sentono tutti – bisogna far emergere quello che c’è dietro ognuno, seguire i sentieri di tante persone, fino a trovare il grande sentiero della liberazione: perché il linguaggio liberato è il linguaggio della follia.

Cesar Brie, che nel suo teatro ha toccato spesso il tema del dolore mentale, ha scritto che “…nessuno crea perché è folle, ma malgrado la follia. La follia non è creatrice.”
È così. Penso alla mostra curata da Vittorio Sgarbi a Siena e che vede esposte proprio in questi giorni opere d’arte sul rapporto tra genio, arte e follia: sono categorie che andavano bene nell’ottocento. Non c’è in tutta la mostra un momento in cui si ricordino le persone che, come Basaglia, hanno fatto la rivoluzione della psichiatria. In mezzo a questo romanticismo d’accatto, non c’è nessun riferimento al manicomio di Volterra, il più grande manicomio italiano, dove già dal 1910 si usava l’ergoterapia, si tentava di migliorare le condizioni dei pazienti con attività lavorative ed occupazionali. La follia è un momento di sofferenza tremenda, depauperazione, squallore, perdita dell’io, della presenza di sé; ci si può far male e si può fare male. La follia è un momento in cui si sta male, male e male.

Guardandosi attorno nella scena italiana, vede altre esperienze che cercano di continuare a intrecciare il lavoro teatrale e la follia?
Vedo molte esperienze in tutta Italia, da Triste a Parma, da Volterra ad Arezzo. Nascono dalle persone, più che dai servizi, dall’incontro tra persone convinte che il teatro possa funzionare in questi contesti. Condividono l’idea di teatro come cammino, come un brainstorming continuo. Io ormai partecipo solo se mi chiamano i matti o gli altri matti, quelli del teatro; altrimenti, faccio una camminata notturna e resto a casa scrivere. Quello che ho scoperto, se faccio una esperienza diversa, lo scopro scrivendo; grazie al margine del linguaggio posso vedere quello che sta succedendo a me e intorno a me. Ad esempio, il lavoro che si sta facendo a Trieste con gli anziani è impressionante: ho visto degli ultrasettantenni portati in scena, con la partecipazione dei servizi psichiatrici. Alcuni avevano l’Alzheimer e fino a pochi mesi prima erano come mummie: in scena discorrevano, scherzavano. Bisognerebbe tirarli fuori: ce ne sono 3500 solo a Trieste stivati in strutture; le famiglie non riescono più a prendersene cura. Con loro non sai mai se verranno in scena, fino all’ultimo possono avere un crollo improvviso. Ma è in questa fragilità che il teatro rivela se stesso.
Stefano Serri

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