CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

Buona navigazione!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

sabato 28 novembre 2009

LAVORI IN CORSO

Il cortile delle storie sospese - Compagnia Il Dirigibile Ausl Forlì, regia di Michele Zizzari

Strade interrotte e ponti vacillanti sono spesso il risultato della forzata ricerca di una praticabilità su terreni scoscesi, disconnessi. Il gioco del teatro è straordinario per questo, perché può permettersi di creare connessioni attraversando contrade impervie con il fascino dei suoi meccanismi. Ma si tratta per l'appunto di un incanto, una seduzione, una pozione magica di ingredienti segreti, da preservare gelosamente o svelare con cautela.
Stendere la propria biancheria in uno spazio di comunità è una pratica che forse abbiamo perso, è una prova di coraggio e di disponibilità alla condivisione.
Nel Cortile delle storie sospese c'è in ballo proprio questo svelarsi, raccontarsi senza la pretesa di tracciare un percorso asfaltato su cui far correre l'attenzione dello spettatore.
Così brandelli di vite diversissime si incrociano abbandonandoci all'antico piacere di sentirsi narrare una storia, sorprendendoci per la capacità di prendere respiro e per la forza della spontaneità.
Il sospetto di lavori in corso è però molto forte e genera un'entrata e un'uscita da quelle strade troppo rischiosa per farsi inseguire fino alla fine; si riconoscono le direzioni scelte, gli impasti di materia viva e ingredienti ben dosati; si accettano gli ostacoli e si apprezzano le curve improvvise.
Ci si ritrova tuttavia pur sempre davanti a quel cartello giallo e nero e non si ritrovano le piume per superarlo, quell'elemento in più che crea l'incantesimo, scolla i piedi e porta via.

Elisa Cuciniello

DIETRO OGNI SCEMO C'E' UN VILLAGGIO

Collage etico di una comunità psichiatrica messa a soqquadro.

Una riunione di condominio, dove tutti si conoscono e nessuno si parla. Un cortile dove affacciano uomini relegati dietro le finestre delle loro abitazioni, dietro vetri colorati da cui sognano avventure. È un'esistenza triste. È la vita di "un matto" che ha un mondo nel cuore ma non riesce ad esprimerlo con le parole. Senza parole e senza espressione.
Così, nascosti da una plastica maschera bianca, il regista Michele Zizzari presenta la compagnia Il dirigibile, formata dagli ospiti e dagli operatori del Dipartimento di Salute Mentale di Forlì.
Svelato il volto de Il Cortile delle storie sospese, siamo catapultati nell'irrealtà di un disagio mentale vivo ma sedato. Ci caliamo improvvisamente nel ruolo severo di giudici: non riusciamo ad accettare la fragilità e la difficoltà, per tutti, di esserci.
Non attori che si fingono "pazzi", ma "pazzi" che si fingono attori. Occhi spenti, sbarrati, smarriti, faticano a posarsi sui volti in platea. Voci labili, rauche, rotte, riescono a stonare la predisposta armonia dell'ascolto. Sono gli occhi e la voce di una moglie senza marito. Gli occhi e la voce di una madre senza figlio. Di un'amante senza amore. Personaggi surreali che vagano nell'assenza di un'essenza scenica, tra luci statiche e musiche stitiche. Un grottesco delirio che racconta una ferita aperta dalla quale, cronici, non riescono a uscire.
Solo danzando, per un momento, li scorgiamo attori sicuri e sfrontati ancheggiare quel ritmo ancestrale. O forse, semplici uomini e donne, finalmente liberi di esprimersi come gli pare nel caos della piazza in rivolta dove, con una citazione di De Andrè, "Un matto" non sembra rivolgersi al pubblico, ma al suo regista: E sì, anche tu andresti a cercare le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezz'ora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria, e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto.

Antonio Raciti

giovedì 26 novembre 2009

IL TESTIMONE SCOMODO

Appunti per una critica delle differenze + Ipotesi di sguardo su Rusco di Gabriele Tesauri e Tempo di smetterla di Andreina Garella

A teatro la posizione di chi guarda è scomoda per sua natura. Si sta in trepidante attesa di essere investiti dalle azioni, con la grande responsabilità di dover poi investire nelle proprie re-azioni perché diventino segni, tracce, proiezioni. Capita spesso però, per abitudine o per convenienza, di lasciarsi affondare nella propria poltrona, di rilassare la spina dorsale e di mettere in moto l'automatismo dello sguardo. È facile essere tentati dal fare affidamento sugli strumenti critici che si possiedono: già collaudati, ci assicurano un risultato abbastanza rapido, più o meno corretto e sicuramente indolore. Ben vengano allora le occasioni di far saltare il meccanismo e di fare esercizio di visione. Il teatro in psichiatria, così come tutte le esperienze sceniche che vengono raccolte sotto il nome di "teatro delle differenze", è uno di quegli eventi che fanno volare il testimone giù dalla poltrona. Dove potrà sedersi, adesso? La difficoltà sta nello scegliere le angolazioni e le distanze dal quale osservare un fenomeno che si pone come oggetto d'arte e che presenta numerose stratificazioni di sostanza e di senso. Ovviamente non ci si può sedere al posto dello psichiatra o dell'operatore sanitario e soffermarsi solo sull'aspetto terapeutico e di recupero sociale dell'operazione, né trovare rifugio sulla sedia del critico teatrale e dimenticare la specificità di queste opere. Occorre trovare una posizione più scomoda che favorisca l'attenzione; occorre forse restare in piedi, per cercare di vedere un po' più lontano. Vale a dire che il testimone non può occuparsi esclusivamente del valore artistico dell'opera in sé e neppure solo della visibile ricaduta benefica sui pazienti-attori, ma entrambi questi aspetti, strettamente legati, devono interessarlo moltissimo, al fine di costruire gli strumenti necessari perché si possa fare strada - una delle tante possibili - all'interno del lavoro. Basta forse, ogni volta, trovare una questione nuova a cui tentare di dare delle risposte, anche se provvisorie. È quasi impossibile trovare la soluzione definitiva, ma vale la pena tentare di avvicinarla.
La prima domanda che arriva assistendo a questi spettacoli è molto semplice e riguarda il lavoro con gli attori. Una grande curiosità attira lo spettatore verso questo mondo doppiamente magico in cui si fondono i misteri del teatro e i misteri della mente, dove accadono cose che riguardano da vicino la realtà, pur sembrando lontanissime dalla vita quotidiana. Questi primi due giorni del Festival MoviMenti, con gli spettacoli di Gabriele Tesauri e Andreina Garella, ci hanno mostrato due possibilità di lavoro profondamente differenti. L'Islandese che si aggira tra fiabeschi cumuli di sacchi della spazzatura in Rusco e la magra figuretta dagli occhi luminosi che stringe al petto un palloncino rosso in Tempo di smetterla ci accompagnano in due diverse direzioni, che solcano le prime due strade di questi teatri della mente. L'esperienza di Tesauri con la Compagnia Arte e Salute si fonda su un lavoro tradizionale d'attore, per uno spettacolo dalla struttura prevalentemente dialogica, spezzato a tratti da monologhi onirici che colorano di fiaba la scena sommersa dai rifiuti e accesa di luci cangianti. Sono questi i momenti di Rusco in cui gli attori trovano il modo migliore di vivere in scena, nonostante l'uso dei testi risulti spesso ridondante e a volte giochi a riscuotere facili consensi. Ci si rende conto di quanto sia importante lasciare che le energie si manifestino nello spazio della scena, di quanto le personalità di questi attori possiedano un alto grado di presenza, tanto più forte ed evidente nelle sequenze sciolte dai vincoli della rappresentazione. Il lavoro di Andreina Garella di Festina Lente Teatro in Tempo di smetterla fa della questione della presenza il suo centro vitale. La concertazione del gruppo, anche se condotta da una struttura abbastanza rigida di scene e controscene, trasforma le sue regole in un potenziale d'espressione senza limiti. È una carrellata di corpi e di voci che prende vita trasformandosi continuamente, un coro di personaggi che si aggrega e si disperde sul palco vuoto, che è il non-luogo che racchiude infiniti spazi. Proprio da qui, forse, da quella presenza capace di colmare il vuoto della scena oltre ogni espediente, il testimone dovrebbe far partire le sue domande, allenare la percezione a coglierne il segno, per essere davvero pronto per il compito che lo attende.

Alessandra Cava

TEMPO DI ESSERCI

Fisarmonica di parole e azioni per ricordare Franco Basaglia

Esiste una chiave d'accesso per entrare nell'abisso di un battito di ciglia, quel lampo di buio in cui si risucchiano emozioni, si illuminano pensieri? Ogni definizione di quell'attimo genera de-limitazioni, confini inutili che non reggono il confronto con l'immaginario. Ogni de-scrizione della follia, allo stesso modo, significa forzarla in strutture che non le appartengono. La sfida è dunque non crearle ulteriori confini ma lasciarla vivere con la sua intensità e svelarla contemporaneamente con la sua profondità.
Un palloncino rosso fa capolino, la scura figurina che lo tiene avanza gracile e dà il via a un'intermittenza di racconti e scene corali, di respiri e di feste. È questo il ritmo, quel "tempo di..." riuscire a respirare un'esistenza che non si può calcolare, né rincorrere.
"Ma esiste davvero un luogo dal quale e nel quale agire liberamente?", così si interroga la protagonista a un certo punto in Tempo di smetterla, rappresentazione-rivelazione di frammenti in movimento in cui le risposte giungono dal semplice 'esserci': lei, Luisa Carini, e gli altri attori di Stazioni di Confine affiorano infatti sulla scena in un'altalena di frame tra gioco e poesia come vivide presenze, come corpi brillanti che riflettono mondi lontani. Con la straordinaria guida di Andreina Garella il gruppo esplora da anni la possibilità di un teatro responsabile, che abbia l'urgenza e il coraggio di mostrare le proprie fragilità senza per questo chiudersi in autocommiseramento o autoreferenzialità, anzi spalancando finestre di universi inesplorati sulle pianure della razionalità.
Giungono insieme a questo spettacolo dopo essersi fermati nelle stazioni letterarie di Don Chisciotte, Astolfo, Gregor Samsa e molti altri compagni di viaggio, testimoni d'eccezione di quanto la follia faccia parte della ragione.

Elisa Cuciniello

C'E' TEMPO PER SMETTERLA?

Tempo di Smetterla di Andreina Garella

Un corpo femminile segnato dal tempo e dalla malattia compare nell'oscurità di una scena nuda. Avanza tenendo tra le grandi mani nervose un palloncino rosso. Indossa il colore dell'istinto e dell'oscurità dell'ignoranza caratteristico della cultura Indiana: il nero. È illuminata da una luce netta, fredda, e ha l'espressione sapiente di chi ha conosciuto la vita, quella vera, e può svelarne i segreti. Ci incanta con i suoi occhi magnetici, e poi ci scopre basiti dalle sue domande: "Cosa potremmo farcene di un'ipotetica libertà se viviamo una vita di inconsce sottomissioni"?
Sarà lei a guidarci lungo tutto il percorso di Tempo di smetterla, scritto e diretto da Andreina Garella e messo in scena dai ragazzi del centro di salute mentale di Reggio Emilia e Festina Lente Teatro.
"Il treno ha fischiato" , il viaggio inizia! La musica incalzante spinge in scena personaggi affannati nel tran tran della loro quotidianità. Vestono di bianco e di nero, un chiaro riferimento alla dualità intrinseca dell'uomo. Si scontrano, si incontrano, si salutano e si lasciano.
Cambia la musica e come in un déjà vu ci immergiamo in quell'iniziale atmosfera mistica per ritrovare la nostra guida. Questa volta il palloncino rosso lo stringe forte al petto, come fosse un bambino. Ha lo sguardo severo. Vorrebbe sgridarci perché "è tempo di smetterla con la solitudine, con l'indifferenza, con i confini, con i muri, con i divieti di accesso. Bisogna correre, ma poi fermarsi, incontrarsi e sognare perché è il nostro tempo e non ne abbiamo un altro". Gradualmente tutta la compagnia interviene a sostegno di quella che ormai ci sembra una "grande madre". Anche loro pensano che "è tempo di smetterla... e di volare, volare, volare".
Nuovamente la situazione si ribalta, ora è tempo di cantare e danzare sulle note di un"cuore matto". Un breve istante per accarezzarsi e sorridere, per sfiorarsi e godere. Un tempo da vivere intensamente, prima di vederlo sparire nella bestialità degli uomini.
Uno spettacolo impegnato e impregnato di rovesciamenti finemente orchestrati, che faranno affiorare piccole e grandi verità da gridare a una società sorda. Un bisogno di rivendicare il diritto di essere uomini emozionabili ed emozionati.
Andreina Garella ha confezionato un'opera che lascia l'amaro in bocca. Permettendo ai suoi attori di esprimersi liberamente è riuscita a sfondare ogni barriera e ad entrare, senza aver bussato, nell'animo degli spettatori. Muovendo i suoi personaggi con una pulizia scenica tipica dei grandi maestri, non ci ha lasciato dubbi sulle sue scelte registiche. È in questo modo che, partendo dalla via tracciata da Basaglia, muove una profonda riflessione sul rapporto della cultura e della società con la diversità. Un viaggio utopico "nel mondo come dovrebbe essere".
Un solo ingombrante enigma ci lacera a fine spettacolo: c'è tempo per smetterla?

Antonio Raciti

mercoledì 25 novembre 2009

BENVENUTI TRA I RIFIUTI, NON VI BUTTEREMO VIA

Rusco - De rerum natura, liberamente tratto da Lucrezio, di Gabriele Tesauri.

Quando si avvolge il sipario dello spettacolo Rusco, espressione dialettale bolognese che significa spazzatura, abbiamo già assistito a una performance lirica per nulla trascurabile. I did it my way, dallo storico pezzo di Frank Sinatra, canta a squarciagola il capocantiere sullo sfondo di un vecchio teatro abbandonato e pieno di immondizia. E lo fa alla sua maniera perché ama cantare e non se ne vergogna. Non ha timore del giudizio dei suoi colleghi che lo osservano esterrefatti, non ha paura di essere criticato per un comportamento considerato anomalo, estroso, gaio. Vuole solo cantare e vorrebbe farlo davanti a una platea gremita. Vuole un posto nella società, perché anche lui ha qualcosa da dire.
L'interprete, Lucio Polazzi, è un "figlio" della legge Basaglia. È un uomo a cui il Dipartimento di Salute Mentale di Bologna ha dato la possibilità di rimettersi in gioco, di costruirsi una vita sociale. Lucio, insieme ad altri ragazzi con problemi psichiatrici, frequentando un corso di formazione per allievi attori, è diventato un professionista, e insieme ai suoi colleghi ha dato vita alla compagnia Arte e Salute. Uomini "riciclati", rientrati nella società dall'ingresso principale. In Rusco, dopo dieci anni di esperienza sul palcoscenico, li ritroviamo artisticamente maturi, ormai in grado di districarsi in scena con totale autonomia e con una spontaneità disarmante. Nello spettacolo, nato grazie a una forte collaborazione col gruppo Hera, alcuni attori hanno vestito i panni di operatori ecologici e ci hanno raccontato la storia di un emarginato. Un clochard islandese che vive abusivamente nell'angusto teatro che loro dovrebbero ripulire. Islanda, questo è il suo nome, passa le sue giornate smarrito nell'alcool e nell'ozio, e di notte, in preda ad allucinazioni, si ritrova a fare i conti con gli scheletri del proprio passato. Il suo primo giudice, un'imponente e artificiosa "natura", è un essere soprannaturale partorito dalla catasta di spazzatura posta al centro della scena. La nostra attenzione è catturata dalle intermittenze fluo delle luci che, attraverso giochi "mistici" di colore, uniscono il busto della creatura alla scenografia che ora sembra indossare. Una vera "apparizione", un momento di grande teatro, in cui l'azione si arresta improvvisamente per lasciare spazio alle parole immortali del Dialogo della Natura e di un Islandese di Leopardi: la Natura ora sembra rivolgersi a noi. Ci spiega che la terra non è stata creata per soddisfare le esigenze dell'uomo, e ci consiglia di cercare la causa dei nostri mali in quell'ansia di vivere che ci contraddistingue.
È a questo punto che ci sentiamo immersi nel torbido mistero da favola noir di Rusco - De rerum natura, dove "nulla nasce da nulla ma tutto viene generato da una distruzione precedente che diventa una creazione nuova", un luogo dove anche gli uomini vengono riciclati, rigenerati.
È questo il teatro epico di Gabriele Tesauri, storie dai temi etici narrate con la saggezza dei grandi maestri della filosofia e della poesia, da Epicuro a Lucrezio, e la leggerezza tipica della commedia all'italiana. Un'altalenare costante dal sapore agrodolce. Un gioco di bilanciamento che interviene in tutto lo spettacolo, come quando si parla del razzismo o dell'abuso di potere, del riciclaggio di denaro "sporco" o dell'affitto troppo caro, dell'abbattimento di un teatro o della costruzione di un palazzo, della fede in Dio o della razionalità della scienza. Due facce della stessa medaglia, che insinuano dubbi, che mettono in discussione il vivere della società moderna.
La visione di Rusco ci mette in condizione di porci quesiti a cui il regista non vuole dare risposte. Ci suggerisce però che possiamo trovarle guardando il mondo da un altro punto di vista: il proprio!
For what is a man, what has he got?
If not himself, then he has naught
to say the things he truly feels
and not the words of one who kneels.
The record shows I took the blows
and did it my way!

Antonio Raciti

INTORNO ALLA NATURA DEL RUSCO

Tesauri e gli attori di Arte e Salute: il De rerum natura fra la società dei rifiuti e i rifiuti della società

È un mondo popolato da curiose creature, quello emerso dalla scoperta di un teatro in disuso e trasformato ormai in discarica. Non appena gli addetti ai lavori si allontanano per organizzare una squadra di recupero e restauro, scopriamo infatti che qualcuno ha fatto di quel luogo apparentemente inutilizzabile la propria dimora, anzi molto di più. Tra una montagna di rifiuti e un fondo di bottiglia si svela uno spazio sommerso dalle passioni e della speranza, in cui ricostruire una vita affrancata da inutili affanni, da dolori, da incuranti divinità. Il passo dalla spazzatura alla filosofia dell'incommensurabile diventa qui incredibilmente breve e si racchiude in un'insolita proporzione: il De rerum natura lucreziano sta all'immondizia come un clochard sta a un filosofo. È infatti soprattutto attraverso le parole del poema didascalico latino che Islanda, un senzatetto, un extracomunitario, confessa il suo allontanamento dalla società degli uomini e dalle loro misere menti e si ritrova a ragionare della natura delle cose proprio in un luogo di abbandono, di scarto.
Quando l'insolito abitatore viene scovato dagli addetti al riassetto del teatro, deve scontrarsi con la dura realtà, quella di una società che in egual modo produce e non tollera i suoi stessi rifiuti, siano essi cose o persone.
Il percorso che ha portato alla realizzazione dello spettacolo Rusco ha visto gli attori della compagnia Arte e Salute - in collaborazione con il Gruppo Hera - impegnati prima nrlla scoperta degli impianti di smaltimento e recupero rifiuti nell'area bolognese per arrivare poi a confrontarsi con i versi di Lucrezio, quel poeta latino che negli intervalli della propria pazzia richiamava gli uomini al senso di responsabilità personale e alla presa di coscienza della realtà.
Il risultato è una piacevole commedia imbastita di testi di canzoni parafrasate, figurine divertenti, ossessioni e apparizioni, in cui il solenne tono virgiliano si affianca a squarci di genuina vita quotidiana, con i suoi modi dialettali (il "rusco" del titolo indica, a Bologna, per l'appunto la spazzatura), le sue scaramucce, le piccole ottusità. Con leggerezza e ironia, lungo il cammino pedagogico iniziato con i suoi pazienti-attori ormai più di dieci anni fa, Tesauri riflette quindi sul senso del 'rimettere in circolo' nelle diverse declinazioni ambientali ma soprattutto sociali, alla ricerca di un equilibrio e di una liberazione da paure, turbamenti, pregiudizi.

Elisa Cuciniello

IL DOPPIO SPETTACOLO DI ARTE E SALUTE

Lo psichiatra Filippo Renda racconta come è nata un'esperienza artistica con importanti valenze riabilitative

Il progetto "Arte e Salute" nasce dall'incontro di Nanni Garella con il dottor Filippo Renda. Abbiamo incontrato Renda, esponente di spicco di Psichiatria Democratica ed ex direttore del Dipartimento di salute mentale dell'azienda Usl di Bologna, ora in pensione.

Come è nato il progetto che avvicina la psichiatria al mondo del teatro?
«La prima idea risale a molti anni fa. Intorno al 1980 cominciai a lavorare a San Giorgio di Piano, occupandomi dei nuovi servizi psichiatrici dopo l'approvazione della legge Basaglia del '78. All'epoca avevo creato dei gruppi di discussione con i pazienti, che erano abbastanza aperti, e avevo invitato Nanni Garella, mio amico, a partecipare. Pensavo già alla possibilità di organizzare nuove attività per i pazienti e avrei voluto che una di queste fosse la recitazione. Con Nanni si parlò molto, ma vicende di vita e di lavoro non resero possibile approfondire queste riflessioni e quindi realizzare il progetto. Nanni si trasferì a Brescia, io continuai lavorare a San Giorgio di Piano e nel 1989 divenni primario responsabile del Centro di salute mentale. Nessuno ci crederà, ma una notte, in quello stesso periodo, mi capitò di sognare di Nanni e del nostro vecchio progetto mai realizzato. Lo raccontai ad Angelo Giovanni Rossi, l'attuale presidente di Arte e Salute, che all'epoca era il mio direttore generale e ricontattai Nanni, che nel frattempo era tornato a Bologna. Dopo appena due mesi il progetto prese il via».

La vostra è stata la prima esperienza di teatro in psichiatria sul territorio regionale?
«Altre esperienze c'erano già state, un po' ovunque, ma di arteterapia: laboratori a scopo puramente "terapeutico" , che non avevano l'obiettivo di mettere in piedi di una vera e propria compagnia professionale. Noi ci siamo detti che di trattamenti ce n'erano già abbastanza e che la vera sfida era quella di riuscire a far lavorare i pazienti».

Qual è stato il processo di messa a punto e di gestione del progetto?
«C'è stata una prima selezione di cui ci siamo occupati noi operatori, a cui è seguita una seconda scelta affidata a Nanni Garella, ovviamente basata sulle potenzialità artistiche degli aspiranti attori. Gli operatori si sono occupati, e si occupano, di aiutare i pazienti a raggiungere i luoghi della formazione e svolgono tutti i normali servizi di sostegno e accompagnamento. Una psicologa cura la convivenza e la coesione nel gruppo. Per quanto mi riguarda, il compito che avevo in qualità di direttore, ma che svolgo tuttora, è quello di supervisionare tutte le attività e di risolvere i problemi che via via si possono creare».

Oltre all'aspetto professionale, che tipo di obiettivi si pone il progetto teatrale di "Arte e Salute"?
«Uno degli stereotipi creati dagli psichiatri, un vero processo di falsificazione della realtà, è la convinzione che il destino naturale dei malati non possa essere altro che la demenza. Non è così, a meno che i pazienti non vengano lasciati a loro stessi oppure, ancor peggio, chiusi nei manicomi o in strutture simili. Se adeguatamente trattate e supportate, invece, queste persone riescono a fare le stesse cose che fanno i cosiddetti "normali". Ovviamente con alcuni limiti, ammesso che i "normali" non ne abbiano. Il primo obiettivo che ci poniamo è quindi quello di dimostrare concretamente la falsità di un simile assunto, che si tramanda immutato fino ad oggi nella storia della psichiatria. I pazienti che fanno parte della compagnia Arte e Salute sono tutti in cura da una decina di anni e mi pare che il risultato ottenuto sulla scena non sia la demenza. Il secondo obiettivo è strettamente legato al teatro: la scena è un potente strumento di comunicazione e possiede un grande potenziale di coesione sociale. Quando si assiste a uno spettacolo con pazienti psichiatrici e attori professionisti, ci si trova di fronte a una manifestazione di inclusione e di cooperazione, a un patto concreto e visibile. è la dimostrazione pubblica del passaggio dalla psichiatria della pulizia della città alla psichiatria dell'inclusione sociale, dai servizi "spazzini" di un tempo a quelli "riciclatori" di oggi. Devo dire che non mi aspettavo risultati di così alto livello artistico, pensavo al massimo di poter girare per teatri parrocchiali; questi lavori hanno superato ogni mia aspettativa. La ricaduta sui pazienti è eccezionale: non guariscono, ma sono molto felici, come capita a chiunque abbia la fortuna di poter lavorare bene».

Come agiscono questi spettacoli sulla percezione dello spettatore?
«Lo spirito che uno spettatore dovrebbe avere nell'assistere a questi lavori è lo stesso che ha qualsiasi amante del teatro nel godere di una buona regia e di una buona recitazione. A questo valore se ne aggiunge un altro: l'esperienza diretta del lavoro comune agisce sullo spettatore, lo meraviglia, distruggendo gli stereotipi diffusi sulla malattia mentale, il pregiudizio che un "matto" non dovrebbe stare su un palcoscenico. è come osservare un doppio spettacolo».

Oltre al teatro di prosa quali attività sono offerte ai pazienti?
«Il progetto "Arte e Salute" comprende la compagnia Senza-Sipario del teatro ragazzi, il Teatro di Figura con i burattinai, che ha avuto un'esistenza più accidentata, ma che adesso si sta riprendendo e la Psicoradio. Al di fuori del progetto artistico ci sono altre realtà, ad esempio la cooperativa di ceramica che fondai con dei pazienti molti anni fa, che è ancora lì, viva e che lavora; è l'unica cooperativa della zona fondata da pazienti: il consiglio di amministrazione, tranne il presidente, è interamente composto da pazienti. Esiste anche una cooperativa che si occupa del verde e dei giardini, vari gruppi di auto mutuo aiuto. Questo tipo di attività potevano bastare alla fine degli anni Settanta, quando i pazienti erano per lo più contadini e operai che avevano spesso solo la terza media e pochissimi il diploma di maturità: il progetto di vita che avevano alle spalle era per lo più legato al lavoro manuale. Tutte le cooperative che nascevano, quindi, anche se avevano un'impronta artistica, erano comunque basate sul lavoro manuale. Invece, già dagli anni Ottanta, con l'aumento del grado di istruzione, sono aumentati i pazienti diplomati e laureati, con fallimenti riguardanti progetti di vita culturalmente più complessi. Al fine della restituzione e della realizzazione dei progetti personali, i servizi hanno dovuto far fronte alle nuove esigenze, articolarsi e diversificarsi. C'è stato bisogno di ipotizzare altri percorsi di inserimento e Arte e Salute è la dimostrazione del successo di questa scelta».

Alessandra Cava

L'ARTIGIANO DELLA REGIA

Abbiamo incontrato il regista Gabriele Tesauri che, con il suo Rusco – De rerum natura, inaugura il festival DiversaMente. Tesauri, giovane artista formatosi con numerose e diversificate esperienze, ha affrontato la sua seconda regia con la compagnia Arte e Salute formata dai ragazzi del Dipartimento di Salute Mentale - A.u.s.l. di Bologna.

La visione della generale di Rusco ci ha dato l’impressione che si tratti di un minuzioso lavoro di “artigianato”, capace di creare una solida e matura opera d’arte.
Tu sei regista, ma prima sei stato attore, ti occupi di teatro, ma ti è capitato di fare anche cinema. Perché hai scelto di arrivare gradualmente alla regia?
«La regia è stata sempre una mia passione, ed è un ruolo che sento appartenermi, ma ho iniziato il mio percorso con la scuola di recitazione Galante Garrone di Bologna, diplomandomi nel 1995. Qualche anno dopo sono entrato a far parte della compagnia Arte e Salute, inizialmente come attore e successivamente come assistente alla regia di Nanni Garella, direttore della compagnia. Credo molto nei registi che arrivano da questo tipo di formazione. È indispensabile conoscere il meccanismo dall’interno per poterlo mettere in moto nel modo migliore. Vedo il teatro come una forma di artigianato, dove ogni tanto avviene un piccolo miracolo per cui un oggetto artigianale diventa un capolavoro, un’opera d’arte appunto.
Il cinema invece lo faccio quando mi chiamano gli amici, come Guido Chiesa. È un altro mondo, un altro modo di interpretare questo mestiere e sicuramente se in teatro devi amplificare, nel cinema devi lavorare di interiorità, di sottrazione. Se capiterà continuerò a farlo, parallelamente alla mia attività in teatro, perché credo che l’esperienza sia sempre utile. Il cinema è un’ottima palestra e devo ammettere che mi diverte molto».

Cosa puoi riportarci della tua esperienza al fianco di Nanni Garella?
«Il mio rapporto con Nanni Garella è iniziato molti anni fa, sui banchi della Galante Garrone dove ero suo allievo. Oggi c’è una grossa stima reciproca. Considero anche Nanni un artigiano, lui viene dalla scuola di Castri e ha sviluppato un modo di lavorare che io ammiro. Nei suoi lavori c’è una grandissima fedeltà al testo. È il testo che ti racconta tutto quello che devi mettere in scena, ed è da lì che bisogna partire. Non da idee puramente teoriche, cercando forzatamente di costringere il testo a quell’idea, a quei dogmi. Nel nostro lavoro devi metterti umilmente a servizio di quei materiali che hai e da lì iniziare a costruire in maniera lineare, in maniera consequenziale. Facendo così, anche la creatività viene rafforzata. Ho imparato molte cose da Nanni, per me è un maestro, e continuare a lavorare con lui è molto stimolante».

Come e quando è nato il tuo rapporto con la compagnia Arte e Salute?
« È nato come attore, per la messinscena del loro primo lavoro, Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, nel 1999. L’esperienza è stata intensa e il nostro rapporto si è rafforzato dopo il mio passaggio professionale ad assistente alla regia. La mia partecipazione emotiva al progetto è sempre stata molto forte, e vedendo i risultati di questa operazione e osservando come queste persone sono cambiate, si sono trasformate negli anni, è logico che diventa sempre più impensabile separarsi. Abbiamo condiviso un percorso e oggi ci sentiamo una grande famiglia».

Che tipo di rapporto hai con i ragazzi della compagnia Arte e Salute e come lavori con loro?
«Fin da subito l’idea di questo progetto era quella di creare una compagnia di professionisti, cioè di lavoratori dello spettacolo. I nostri attori, dopo un corso di formazione di alcuni anni, hanno ricevuto il libretto Enpals, per cui sono dei professionisti e noi ci rapportiamo a loro in modo assolutamente professionale. Non sappiamo fare altrimenti, non conosciamo i metodi terapeutici, per cui ci comportiamo come con tutti gli altri attori, e abbiamo riscontato che questo funziona. Queste persone, alle quali viene data la possibilità di lavorare, hanno un miglioramento della loro vita perché vengono reinseriti nella società, fanno qualcosa di riconosciuto, e fanno anche qualcosa che altri non sanno fare. Tutto questo risulta un valore aggiunto nella socializzazione, quando si confrontano con le altre persone nella quotidianità.
Mi reputo fortunato a lavorare con i componenti di questa compagnia. Hanno una notevole capacità di improvvisazione, di immedesimazione nel personaggio, qualità che professionisti usciti dalle scuole fanno molto fatica a raggiungere in breve tempo, e che in loro invece è comparsa immediatamente. Nello stesso tempo posseggono una grande capacità epica, per questo ho messo in scena i Drammi didattici di Brecht, e funziona bene anche Pinter (che metteremo in scena con Nanni questa primavera). Hanno questa epicità, questa scissione, quasi naturale. In loro puoi vedere chiaramente il gioco del dentro e fuori, quel “sono un attore e sto facendo una parte”».
Inauguri il festival “DiversaMente” con lo spettacolo Rusco - De rerum natura, liberamente ispirato a Lucrezio. Quale rapporto intellettuale hai con l’autore e con l’idea di «recupero» che è alla base dello spettacolo?
«Rusco nasce dalla collaborazione con il Gruppo Hera, e con la voglia di occuparci di ambiente.
I nostri ragazzi hanno fatto i reporter e sono andati nei vari siti di Hera raccogliendo materiale. Analizzando quello che avevamo osservato, ci siamo ritrovati tutti colpiti dal processo di riciclaggio dei rifiuti. Un oggetto che viene buttato, attraverso il riciclo e la trasformazione, può essere rimesso in circolo come qualcosa di utile all’interno di un circuito sociale. Abbiamo pensato di partire dall’origine dell’indagine di questo tema e tra i primi c’era sicuramente Lucrezio e quindi Epicuro, con l’idea che “nulla nasce da nulla ma tutto viene generato da una distruzione precedente che diventa una creazione nuova”.
Lucrezio, traduttore di Epicuro per i Romani, è stato un grandissimo poeta. È riuscito nel “ gioco” che vorrei fare io, cioè grandi teorie filosofiche portate con una forma poetica che risulti accattivante. Il mio tentativo è quello di tradurre nuovamente queste teorie filosofiche, in una maniera non ammorbante, sì che possano divertire e interessare, e magari anche emozionare».

Sia in Rusco, che precedentemente in Drammi didattici, tramite la compagnia Arte e Salute, hai raccontato storie di vita quotidiana, che rispecchiano i quesiti esistenziali della società moderna. Da cosa nasce in te questa esigenza?
«Le domande sull’esistenza, o quelle che Brecht proponeva nei Drammi in una visione un po’ più didattica, oppure i quesiti che vengono posti in Rusco, sono argomenti che mi interessano personalmente, perché credo che fare questo mestiere, e quindi fare l’artigianato, è fare qualcosa in cui credi. Per me la forza del teatro sta nel riuscire a dare una visone diversa del mondo, portare il pubblico a porsi dei quesiti che permettano di prendere la vita in maniera diversa. Metterlo in scena con i ragazzi è molto semplice perché loro anche nella quotidianità ti raccontano che si può vivere in un altro modo, rispetto a “quell’ansia del benessere” tipico della nostra società. I miei attori sono sempre lì a dirmi: “Ma che problemi ti fai?”».

Antonio Raciti

PERCHE' IL TEATRO?

Arte, salute, società: per comprendere il modo e il valore dell'incontro di queste realtà attraverso l'attività teatrale con pazienti psichiatrici, abbiamo incontrato il direttore del Centro di salute mentale dell'azienda Usl di Bologna.

A undici anni dalla nascita del progetto "Arte e salute", che senso ha per il Dipartimento di salute mentale continuare a promuovere un'attività come quella teatrale?
«Per una struttura operativa della nuova psichiatria come il nostro Dipartimento, l'attività teatrale permette di aprirsi a nuove forme di riabilitazione. Fare teatro svolge infatti un'azione terapeutica, abilitativa e riabilitativa attraverso cui far emergere qualità espressive personali altrimenti oscurate dalla situazione clinica di partenza. Questo perché la crisi psichica non cancella ma oscura delle potenzialità e dei talenti che possono riaffiorare attraverso la pratica artistica. Ma forse la prospettiva più interessante emersa nel continuum dell'attività della compagnia Arte e salute, in più di dieci anni di spettacoli, è di aver costruito un nuovo, determinante contesto di professionalizzazione».

Cosa significa in questo contesto essere riconosciuti professionalmente come attori?
«Vuol dire poter ricomporre la propria identità sociale e la personale autonomia attraverso il lavoro in campo artistico e intellettuale. E si tratta di un mestiere vero! Non tutti possono arrivare a fare teatro. Le compagnie si formano infatti a partire da un gruppo di pazienti indicati dai colleghi del dipartimento all'interno del quale poi i registi hanno ricercato talenti veri, indipendentemente dalla patologia, per far emergere o stimolare una creatività che in molti casi ha funzionato da incentivo per intraprendere percorsi artistici e lavorativi differenti sulla strada che ognuno ha ritenuto più confacente alla propria espressività».

Le persone con disagi psichici hanno notoriamente una grande pratica di 'allenamento' nei confronti del mondo interiore, un aspetto fondamentale per un certo lavoro d'attore...
«In proposito mi ritornano sempre in mente due episodi che custodisco come preziosi ricordi. Alcuni degli attori impegnati nelle compagnie sono anche miei pazienti ed è con loro che mi soffermo maggiormente in seguito alle performance spettacolari per complimentarmi e condividere sensazioni e stati d'animo. Ebbene, proprio in quelle circostanze, mi hanno confessato di essere riusciti a vivere, grazie al personaggio, emozioni che altrimenti avrebbero avuto paura a gestire; o ancora, in occasione della rappresentazione di Sogno di una notte di mezza estate, un attore delegava alle caratteristiche del personaggio tutta la sua bravura. In altri termini ciò significa che il processo creativo, inteso come possibilità di giocare altri ruoli da sé, finalizza in senso creativo l'immaginazione e insegna a modulare e gestire le emozioni, a migliorare le competenze comunicative, quindi a interagire in maniera più consona con gli altri. Sulla qualità del percorso artistico di queste persone bisogna naturalmente affidarsi al giudizio del regista Garella, il quale rileva una capacità di modulare sul personaggio qualcosa che appartiene già al proprio io, una chiave d'accesso personale ma efficacissima per lavorare sul ruolo che difficilmente si riscontra negli attori che non vivono gli stessi disagi. "Arte fecondata dalla follia", diceva la Merini...».

Avete riscontrato delle trasformazioni evidenti rispetto alle situazioni critiche di partenza?
«Certamente. Innanzitutto si assiste a una diminuzione delle situazioni di crisi, ma anche laddove esse continuano a manifestarsi con una certa costanza sono comunque vissute ed elaborate senza rappresentare un ostacolo allo svolgimento della vita quotidiana. In generale si avverte un miglioramento complessivo dei sintomi e dell' "espressività" degli stati depressivi che diventano maggiormente gestibili. Questo vuol dire che non si può parlare di guarigione tout court ma di un aumento di autostima e della qualità della vita in termini di socialità. Proprio come in altre patologie croniche, dunque, il disagio psichico può diventare compatibile con le esperienze quotidiane, imparando a convivere con i propri disturbi.
In questo senso all'interno del dipartimento tutti i progetti riabilitativi sono finalizzati al reinserimento in società, nella convinzione che crisi e sofferenza sono sì soggettivamente devastanti ma è la difficoltà di un vissuto all'interno del gruppo sociale a bloccare davvero qualsiasi percorso di inserimento. Attività come Psicoradio, come le cooperative sociali e agricole o l'impegno nell'ambiente sono strategie abilitative che consentono di riprendere le abilità offuscate e attraverso questo processo inserirsi nel mondo del lavoro».

Negli anni '80 lo psichiatra Ferruccio Giacanelli affermava che tutto il peso della psichiatria risiedeva nelle sue stesse parole, in quei termini che «fissano un frammento di realtà e lo caricano di significato, il più spesso negativo, per cui la gente è abituata a diffidare della malattia mentale».
Salute mentale - Salute della comunità: come si coniugano oggi queste due obiettivi?
«Con l'evento spettacolare e la sua fortissima azione culturale di destigmatizzazione verso gli stereotipi di inaffidabilità, sospetto se non addirittura pericolosità che connotano negativamente la malattia mentale. Non soltanto un effetto benefico su chi fa teatro, quindi, ma soprattutto sui suoi familiari e sulla comunità tutta, sollecitando una nuova sensibilità e la consapevolezza della dignità del paziente psichiatrico, dei suoi diritti di cittadinanza. In una recente ricerca è emerso che quasi tutti i dipartimenti di salute mentale dell'Emilia Romagna svolgevano avevano inserito l'attività teatrale come momento fondamentale nei processi riabilitativi. La rassegna DiversaMente proposta all'Arena del Sole è, proprio per questo, un decisivo momento di condivisione dei percorsi realizzati nell'intera regione. Soddisfatti dei risultati, siamo soprattutto ancor più motivati a proseguire tale fecondo innesto fra prospettive cliniche e saperi extra-medici, culturali, nella convinzione che solo da qui si può partire e continuare a produrre profondi cambiamenti nell'animo umano».

Elisa Cuciniello