CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

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DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

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SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

martedì 10 marzo 2009

X (ics) HALLE NEUSTADT

CONVERSAZIONE-RECENSIONE CON ENRICO CASAGRANDE E DANIELA NICOLO' (MOTUS)

Un viaggio nei meandri della gioventù ai margini, inquieta, disorientata negli spazi deserti e infiniti della contemporaneità. Il gruppo Motus, in questa terza tappa del progetto partito da Rimini nel 2007, scende in campo a sondare le visioni, le ragioni, le poetiche degli adolescenti alle soglie della vita adulta, residenti in una città quasi fantasma della ex-DDR, spopolata drasticamente dopo la chiusura di grandi fabbriche, Halle-Neustadt. Il dimezzamento degli abitanti dopo la caduta del muro di Berlino e della DDR ha provocato in questa città l'abbandono di numerosi spazi abitativi, industriali, commerciali, che oggi giacciono vuoti. Non stupisce che gli adolescenti, alle prese con la libertà appena guadagnata e l'istinto di dar respiro alla propria identità, si dedichino al pellegrinaggio in questi posti dalle porte spalancate. Ecco i (non) luoghi d'incontro tra gli artisti riminesi e i residenti. Le telecamere seguono una figura alta, magra e bionda, ambigua, asessuata come Silvia Calderoni sui pattini, epicentro delle immagini video e della scena dal vivo.

Il progetto l'avete creato in stretto contatto con la performer principale. Cosa ha significato per voi, drammaturgicamente ed esteticamente, impostare il lavoro attraverso l'ottica di una figura come Silvia Calderoni?
D.N.: In X, già l'incognita del titolo denota questa ambiguità, mistero. Il suo essere una figura 'incatalogabile', nell'ambiguità tra maschile e femminile, qui in Romagna era meno evidente. Ma quando ci siamo spostati in Francia, nei quartieri magrebini, gli appellativi che gli venivano lanciati erano più carichi; l'interrogazione sul suo essere maschio o femmina era molto più ricorrente. A Napoli pensavano tutti che fosse straniera, quindi l'estraneità rispetto al luogo era più forte, al di là del suo vestirsi. Silvia svolge per sé anche una ricerca nell'immaginario dei vestiti ed è molto creativa anche da questo punto di vista. Ci era piaciuto perché non era un modo di vestirsi omologato. Silvia da sempre nella sua vita crea tanti personaggi e vuole essere eclettica: il fatto del continuo trasformismo è stato amplificato all'interno dello spettacolo. Volevamo che la figura attirasse su di sé l'attenzione, la curiosità, lo scherno. Una figura che notavi e con la quale provavi a relazionarti.

L'attrice durante tutto il progetto è sui pattini. Perchè questa scelta?
E.C.: Per diversi motivi. Quello più pratico era la volontà di partire dalla realizzazione del video/film. Avere una figura sui pattini ti cambia il mondo. Visto che il suo sguardo era quello che dava direzione a tutto quello che gli girava attorno, avere questa marcia in più ci permetteva di captare la realtà in modo diverso. I pattini, gli skateboard, le bmx sono elementi che stanno dentro all'immaginario contemporaneo, riconoscibili per un certo tipo di età o generazione alla quale volevamo riferirci. I pattini sono il motivo più ricorrente in tutte le derive che il progetto X ha avuto.
D.N.: Ci è capitato di leggere un libro intitolato 'Skaters'. Prima non ci siamo mai interrogati sul vivere l'urbano attraverso le ruote. Insomma il libro raccoglie testimonianze, visioni del mondo da parte degli skaters: al centro del libro sta il rapporto continuo con la città, col marciapiede, col superare soglie e limiti, oltrepassare in maniera non convenzionale le varie barriere architettoniche. Ci piaceva quindi il rapporto di rottura con i confini della città e ci interessava dare allo spettacolo l'idea di questo desiderio di slancio. Alcune piccole frasi di Silvia, in voce off, vengono da questo libro.


Nello spettacolo (il sottotitolo è X.03 movimento terzo) non c'è altra scenografia che lo schermo-totem al centro del palco e una panchina all'estremo del proscenio girata con lo schienale verso il pubblico. Siamo in strada, luogo del via vai per eccellenza. Tutto ha un'atmosfera melanconica, grigia, vasta, industriale, vuota. Il montaggio delle scene, grazie soprattutto alla presenza del video, ha un'impronta squisitamente cinematografica. Occupare il buon 50 % della visione scenica con lo schermo è sicuramente una scelta con il suo peso drammaturgico. La conseguenza è una continua oscillazione percettiva tra cinema e teatro, il linguaggio tipico dei Motus.


Nel terzo movimento si ha una drammaturgia dell'esterno/interno. Potreste raccontarci qualcosa sulle scelte con le quali vi siete cimentati nel trattare la trasposizione della memoria nella scatola teatrale?
E.C.: Credo che la sfida più grande sia proprio questa: come fare coagulare, fare diventare ancora vero quello che noi abbiamo vissuto all'esterno. Tutto quel fuori doveva entrare nella scatola nera del palcoscenico; questo è il momento della massima paura, spaesamento, ma anche di massima attenzione creativa. Avevamo scelto di rimandare, riportare con piccoli elementi di sintesi l'ambiente esterno permettendoci una drammaturgia più poetica e sintetica rispetto al raccontare delle storie. Abbiamo preferito dare delle atmosfere piuttosto che raccontare.
D.N.: La doppia natura del video, dello schermo presente in scena è sempre una grande sfida. In Halle Neustadt abbiamo messo uno schermo enorme che può schiacciare gli attori da un momento all'altro. Nel primo movimento c'era proprio questo squilibrio; a parer nostro il video e la presenza scenica dialogavano con difficoltà. Ma in Halle abbiamo trovato il modo per comporre l'immagine: dalle riprese documentarie montate con un montaggio filmico (ci siamo anche rifatti in certi casi al videoclip), l'immagine nitida si frantuma e diventa 'pixelata'. Questa scomposizione del materiale video rende tutto più profondo, materico, vivo: non è più solo un fondale, non è cinema puro ma qualcosa che si frantuma, penetrabile. Alla fine tutto il lavoro cerca di frantumarsi fino al momento dello sfondamento dello schermo quando nel retro si rivela un interno: il vuoto di una stanza dietro lo schermo è un momento molto importante per noi. É una stanza veramente vuota.

Che la scena dei Motus sia viva è fuori discussione. Non c'è racconto, nè cronologia, ma continui sprazzi di atmosfere, motivi, suoni, immagini, apparizioni di persone 'raccolte' durante la residenza. La panchina ospiterà alla fine un testimone del luogo per ogni tappa diverso: per la recita nella stagione della Soffitta un'anziana con l'accento bolognese che con il suo racconto traccerà un salto generazionale. Allo spettacolo non manca una linearità poetica. Uno degli elementi che sorregge l'impianto drammaturgico in Halle-Neustadt è il suono. Oltre a trasporre la testimonianza sonora nella scatola teatrale, i Motus fanno vivere il palco in stretto rapporto con le azioni, producendo effetti di forte impatto uditivo.

E.C.: É da un po' che usiamo microfoni come amplificazione dell'ambiente in modo che anche il gesto dell'attore, come la parola, sia sonoro invece che sordo; così che anche il movimento riesce a essere evidente in tutte le sue derive. Specialmente nel lavoro più fisico di Silvia questo diventa marcatura del momento scenico. Il lavoro sul suono è abbastanza stratificato. Siamo partiti per livelli. Il filo conduttore dovevano essere suoni dagli incontri che avevamo fatto con le band giovanissime nei loro spazi di prova. Poi c'è il suono propriamente urbano, degli esterni; il suono del vento in macchina nella telecamera; il livello del quasi suono ma sono parole, racconti, conversazioni casuali riprese in strada che diventano tessuto sonoro, materia.
D.N.: Il corpo di Silvia è stato concepito come uno strumento musicale: le protezioni di plastica, i pattini in relazione allo schermo all'inizio di Halle Neustadt e in Crac. Con l'amplificazione sonora il pavimento diventa qualcosa che percuote, che suona col corpo, con i respiri, senza parola.


La scena 'sensibile' è ancora più accentuata in Crac, performance deriva dell'articolato progetto, sintesi plastica di tutto il percorso. Tutto sembra essere instabile, oscillante secondo l'effetto del suono e della sua eco; sotto la superficie della scena sembra esserci un abisso infinito, buio, vuoto. L'insicurezza, l'incognita è dunque doppiamente accentuata dal contatto tra scena e performer che sembra essere quello tra archetto e viola, col suono che cerca di definirsi nella cassa armonica, il corpo che vibra nell'abisso a trecentosessanta gradi. Magari è un abisso pieno, ma di macerie dimenticate, abbandonate e accumulate dal tempo dove comunque un seme portato dal vento troverà un suo territorio e farà spuntare una piantina, convinta, testarda, che cambierà per sempre quel paesaggio.

Tomas Kutinjač

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