CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

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DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

lunedì 7 dicembre 2009

...QUALCOSA DI DIVERSO

Incontriamo Lucia Vasini, regista dello spettacolo Da 'Aspettando Godot'... qualcosa di diverso, frutto del laboratorio teatrale realizzato con gli ospiti e gli operatori dei Centri Diurni e delle Comunità del Dipartimento di Salute Mentale dell' Usl di Piacenza. Il progetto, avviato nel 2004 grazie a Teatro Gioco Vita, è cresciuto con la costituzione di una Compagnia teatrale, denominata "Diurni e notturni". Un progetto che, ci racconta la Vasini, era un suo sogno da sempre, reso possibile dall'amicizia e dal suo rapporto di fiducia con il teatrante e organizzatore di teatro Diego Mai.

In che modo l'incontro e il lavoro con gli ospiti dei Centri Diurni e delle Comunità di Riabilitazione ha cambiato la tua idea di teatro?
«In realtà credo sia avvenuto proprio l'inverso: è stata l'idea di teatro che già avevo e che ho sempre avuto a portarmi a incontrare questa realtà».

Puoi spiegarti meglio?
«L'idea è che ognuno ha delle capacità, un talento personale che lo rende diverso da chiunque altro e, in qualche modo, unico. Si tratta solo di individuare questo talento, quello di ognuno, e metterlo in evidenza. Non parlo di talento dal punto di vista tecnico. Io ho fatto l'accademia del Piccolo Teatro e ho studiato il mestiere teatrale in senso 'classico'. Ho incontrato personaggi importanti legati a questa tradizione, come Vittorio Gassman, Massimo Dapporto. Ma nello stesso tempo, ho seguito sempre quello che sentivo e spesso ho imparato osservando proprio quegli attori, meno conosciuti che però, in realtà, hanno fatto la storia del teatro. Uno di loro era Checco Rissone, che lavorava con Strehler e seguiva il metodo della 'recitazione naturale', quello - per intenderci - di Stanislavskij e dell'Actor studio, che negli anni '50 era fortemente innovativo. Io ho sempre saputo che non volevo recitare in modo 'finto', impostando la voce con il diaframma etc.
Per questo ho cominciato a lavorare con Paolo Rossi, un attore che 'veniva dalla strada', che non aveva fatto nessuna scuola. Paolo diceva di sentirsi inadeguato per il mestiere dell'attore perché non aveva le basi tecniche. Ma io non ero d'accordo perché credo che la tecnica non stia alla base della recitazione ma che debba venire in un secondo momento, a supporto del talento di una persona, che è una cosa diversa. Il talento è qualcosa che viene prima e ha a che fare, appunto, con quelle potenzialità di cui parlavo all'inizio. Potenzialità dal punto di vista umano. Perché quello che conta è il cuore».

Sarebbe corretto dire, a questo punto, che proprio la tua necessità di fare questo processo a ritroso, di 'regredire' al grado 'zero' della teatralità è ciò che ti ha portato a fare teatro con le persone che hanno dei disagi psichici?
«Sì. Ho cercato di liberarmi dalla tecnica e mi ci sono voluti tre anni per riuscirci. Paolo Rossi in questo mi ha molto aiutato».

Qual è il vostro metodo di lavoro attoriale?
«Il metodo che utilizziamo è quello del canovaccio e delle azioni, legato alla scuola della Commedia dell'Arte e, in qualche modo, al lavoro di ricerca che ho fatto per vent'anni con Paolo Rossi e Giampiero Solari».

In che modo, nel tuo lavoro, la 'follia' aiuta o si lega alla creatività?
«Un attore, di norma, lavora sempre nella follia. Lavora nel Sé, che è proprio la sede dell'area creativa. Ci sono attori 'sani' che sono letteralmente impazziti facendo teatro perché lavorare con il Sé è pericoloso. Nell'inconscio, come sappiamo, ci sono sia il bene che il male. Ciò che ci aiuta e ci 'salva', a teatro come nella vita, è la consapevolezza.
La cosa che possiamo fare insieme a queste persone è creare consapevolezza. In questo il palcoscenico aiuta: nella vita quotidiana tutti siamo attori ma non abbiamo consapevolezza.
Quando si parla di 'magia' nel teatro è proprio questo: non è terapia e nemmeno arte, è consapevolezza. Se consideriamo poi che la distinzione oggi non è più tanto quella tra sani e malati quanto quella, forse, tra malati mascherati e malati dichiarati, viene fuori che, paradossalmente, sono i 'matti' - ovvero quelli che dichiarano un disagio e si curano - coloro che hanno più consapevolezza».

Ti viene in mente un aneddoto, riferito a questo concetto?
«C'è un nostro attore, Marco, che all'inizio, per due o tre anni, non parlava; e quando lo faceva diceva delle cose illogiche a cui io, inizialmente, non ero preparata. Successivamente, quando è salito sul palco, ho capito che lui era consapevole di avere dei pensieri illogici e se e vergognava. Per questo motivo preferiva non parlare. La svolta decisiva è stata quando, lavorando sull'improvvisazione, si è sentito libero di dire tutto quello che voleva. E' stato allora che il ghiaccio si è rotto. Nello spettacolo di questa rassegna, non a caso, lui interpreta Samuel Beckett, l'autore del testo, che resta presente in scena ed interviene, a sua discrezione, per rivolgersi agli attori. E' perfetto. In questa situazione lui è perfetto. Ed è questo il nostro lavoro: valorizzare le possibilità e le doti di ognuno in modo che siano gli attori, donando i propri pregi e i difetti al personaggio che interpretano, a conferirgli personalità e autenticità. Il più delle volte sono loro ad avere l'intuizione giusta, a prendere la giusta direzione e noi non dobbiamo fare niente. E' un dono quello che ci fanno».

Perché avete scelto Aspettando Godot?
«Mi è sempre piaciuto Beckett e, in particolare, quando ero a scuola, ricordo che mi sarebbe piaciuto recitare in Aspettando Godot. Ho scoperto inoltre, ma solo in un secondo momento, che Beckett era malato e che proprio grazie al teatro è riuscito a curarsi. Quando poi ho visto l'Aspettando Godot di Iannacci e Gaber, dove Paolo Rossi interpretava Lucky, ricordo di aver notato che una cosa sola non funzionava: le pause. E allora ho pensato che proprio i 'matti' avrebbero potuto lavorare bene sulle pause, perché hanno il pensiero continuo, come dovrebbe averlo un attore. E allora, rifacendomi al discorso delle qualità di prima, ho ritenuto che questa scelta fosse per loro valorizzante».

Alessandra Ferrari

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