CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

Buona navigazione!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

mercoledì 18 marzo 2009

ALCHIMIA DELLA VILLEGGIATURA

ALLA META, Teatrino giullare


Manovriamo le parole cercando qualcosa: mescoliamo, scaldiamo, distruggiamo a volte, sempre amando i nostri scarti. Che l’interpretazione sia un atto alchemico lo diceva Walter Benjamin in modo esemplare; ma il risultato di questo operare non è certo sempre e solo oro. Capita anche in teatro di amare più il risultato informe, lo stato intermedio di elementi ancora in potenza, piuttosto che il loro risultato. Rimaniamo ammirati di fronte a certe variazioni inorganiche. Altre volte, la coerenza di uno spettacolo e la sua necessità colpiscono, non solo come una reazione chimica ben riuscita: ci sembra di essere noi parte degli elementi della reazione. Così, in Alla meta di Thomas Bernhard portato in scena da Teatrino Giullare, il pubblico riceve una viva sfida dal blocco oscuro e rigido che abbiamo di fronte tra testo e rappresentazione.
La Madre e la Figlia si preparano, come tutti gli anni, per la vacanza nella casa al mare; l’unica novità è che ad accompagnarle, quest’anno, sarà un uomo famoso che appena conoscono personalmente: uno Scrittore di teatro. Se la prima parte del dramma si concentra sulla preparazione del baule per il viaggio, la seconda ci porta al mare, a Katwijk. Non siamo certo nella proustiana Balbec, non ci sono fanciulle in fiore né incontri che segnano la vita: qui nessuno prende una strada diversa, quella che porta fuori dal cerchio gelido e infernale della ripetizione. Come la malattia in Perturbamento, così il teatro in Alla meta ha bisogno di qualcuno che lo descriva e lo viva “dal di fuori”, lo Scrittore, e di qualcuno che, monologante, faccia emergere le contraddizioni che nascono dal restare in una condizione. La Madre trova assurdo e inutile il teatro; “odiamo anche Shakespeare”, dice, mentre elenca le decadenti convenzioni teatrali; ma il suo monologo è possibile solo in una logica drammatica. Si percepisce, in questo testo di Bernhard, quasi un congelamento: un inferno freddo come quello altrettanto materno e opprimente di Strindberg, dove i padri e i mariti sono assenti e continuamente rievocati, non sempre con affetto; ma qui nessuna fiammata finale viene a liberarci. In villeggiatura, madre e figlia ascoltano sempre il Bolero di Ravel: una partitura, basata su variazioni puramente timbriche di due motivi ripetuti fissamente identici a se stessi, che sembra la giusta musica delle sfere di un universo vecchio e fermo.
La scelta interpretativa di Teatrino Giullare, che ha meritato al gruppo il premio speciale Ubu 2006 per la profondità di esplorazione dei classici contemporanei, continua a coniugare il lavoro su grandi testi della drammaturgia alla ricerca di un attore artificiale. Se la Madre rappresenta una sintesi tra il corpo vivo dell’attrice e l’inorganico (la maschera grottesca, la mano di legno), la Figlia è un vero e proprio manichino, manovrato invisibilmente o apertamente dalla stessa madre. Anche lo scrittore, libero di muoversi e di tentare inutilmente la fuga, porta una pesante maschera che lo sfigura. Siamo in un mondo di marionette svuotate da ogni grazia. L’esistenza della protagonista si riassume nella lunga serie di abiti che la Figlia riordina, preleva dalle grucce, inserisce nel grande baule al centro della scena; il suo regno è invece una poltrona che si trasforma in sedia sdraio nella seconda parte: cambia il supporto, ma l’immobilità rimane. Un piccolo faro, lento e regolare, proietta sulla scena il trapassare del tempo.
Cosa si nasconde sotto questo ben congegnato meccanismo? “Quando in superficie tutto è calmo / allora dentro di noi accade di certo / qualcosa di altamente drammatico” dice la Madre. Molti strati di materia cercano di restituire una scintilla viva. Il testo, l’interpretazione soffocata, la scena rigida sembrano ribadire: tutto è nigredo, tutto è materia allo stato oscuro; nello spettatore si accende allora questa attesa dell’oro, che rende necessario il tempo speso nel mare del teatro.


Stefano Serri

APPLAUSI BELLI, SINCERI

LA TORRE, Teatro Casa Basaglia
L'onda del Teatro Casa Basaglia raggiunge Bologna: disordine in ogni mente.
Quando un poeta diventa pazzo, anche la sua lingua e le sue poesie impazziscono? La domanda si complica se di fronte a noi abbiamo Friedrich Hölderlin uno dei più grandi poeti del periodo romantico. Nel 1807 viene ricoverato in una clinica psichiatrica a Tubinga a seguito delle continue crisi causate dalla malattia mentale. Dopo essere stato dichiarato incurabile viene affidato a una famiglia di buona cultura che lo fa vivere all’ultimo piano della casa nella stanza circolare che egli stesso denominerà “la torre”. Qui il poeta trascorrerà gli ultimi quarant’anni della sua vita. Dalla finestra ogni giorno riusciva a scorgere tutta la valle circostante e il fiume Neckar. Nascono lì, da quelle vedute, le “poesie della torre” che i pazienti psichiatrici della compagnia Teatro Casa Basaglia il 25 febbraio 2009 interpretano in uno spettacolo itinerante diviso in cinque stanze tra le statue e i dipinti dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna.
L’incontro con questo spettacolo/viaggio è stato reso possibile grazie al progetto a cura di Tihana Maravic Out/Fuori ospitato al centro La Soffitta di Bologna. Un itinerario teatrale che attraversa l’esperienza di Franco Basaglia trent’ anni dopo la creazione e l’ufficializzazione della legge 180 a lui ispirata che impose la chiusura dei manicomi.
Nel 2004 l’artista Nazario Zambaldi organizzò un laboratorio teatrale nel centro di riabilitazione Casa Basaglia di Sinigo nei pressi di Merano.
Il regista lavorò con i pazienti psichiatrici facendo riscoprire in loro la vocazione per il teatro e creando una vera compagnia.
Questo spettacolo che viene ospitato a Bologna durante questi tre giorni dedicati ai “matti” fu presentato per la prima volta nel 2008 al Castello Principesco di Merano. Ora accompagnano noi verso la sommità della torre, verso paesaggi e vedute diverse da quelle quotidiane, in alto verso il debole limite tra “normalità” e “pazzia”.
Accompagnato dal regista lo spettatore si inoltra piccolo piccolo tra le immense statue e gli incombenti dipinti dell’Accademia per arrivare nel primo spazio. Una stanza rettangolare, stesi per terra tre bagnanti con costumi da bagno fine anni ‘20, sullo sfondo un pianista e un uomo in piedi, tutti e due di spalle. Una voce tra il pubblico legge in tedesco una poesia, l’uomo in scena di spalle si gira e la recita in italiano.
Anche i tre bagnanti a turno la riprendono e si lascia lo spazio sulle dolci note di un pianoforte. Il bilinguismo che caratterizza la lettura delle poesie in ogni scena ci riporta un po’ da Hölderlin in Germania e un po’ da loro a Merano, dove, per la vicinanza con l’Austria, si parlano italiano e tedesco. Le due letture sembrano diverse a seconda della lingua, il tedesco è cadenzato, ritmato come prevede la sua prosodia per la lettura di poesie, l’italiano risulta semplicemente letto.
Il secondo quadro lascia lo spettatore fuori dallo spazio scenico, come se stesse guardando dal buco di una serratura il corridoio di una clinica dove un paziente cammina accompagnato dall’infermiera sulle note di “Splendido Splendente” di Donatella Rettore. Anche qui viene letta un’altra poesia, “Veduta”. Ogni brano non è scelto a caso, è associato da un filo logico a ogni scena, il rapporto quindi poesia/situazione è chiaro e forte.
Continua l’itinerario in una stanza spoglia e grigia, quasi in fase di costruzione o di smantellamento. Ora il soundtrack è la voce roca e malinconica di un anziano attore, che, dopo la lettura in due lingue di un’altra poesia “Le linee della vita”, percorre sulle note di una canzone degli alpini le linee della sua giovinezza. Subito dopo un altro attore nonché suo fratello, nell’angolo opposto, si confronta con una fotografia proiettata sul muro che lo ricorda ventenne e lì, per noi o forse più per quel se stesso, suona con l’armonica la melodia appena cantata. Forte più delle altre mi è parsa questa scena, non c’erano più né “matti”, né vecchi, né malati, c’erano soltanto due fratelli e il loro ricordo di un tempo forse per loro migliore. Così anche noi, di fronte a questa tenera immagine, siamo catapultati indietro nella storia per vivere con loro questa malinconica festa.
Il prossimo appuntamento per lo spettatore è davanti a uno specchio dove vede sia se stesso che l’attore con il copione in mano che legge la poesia “Mensch”. Sul suo riflesso, attraverso un semplice gioco di luci, appare il secondo attore, al di là dello specchio, diventato ora un semplice vetro, che recita “Uomo”.
Giunto alla fine del percorso le spettatore si trova in una sala molto ampia nel mezzo della quale attori e tecnici dello spettacolo intonano insieme la canzone popolare “Cinque sorelle da maritar”: ogni attore si “sposerà” allora con una delle sorelle/bambole al centro della scena.
Un finale che porta aria di festa, di sagra, di comunione con tutti che rispecchia la semplicità della messa in scena e giustifica le imprecisioni.
Una mezz’ora per guarire loro “matti” o noi “normali”? E chi è proprio sicuro che la collocazione di questi “loro” e “noi” sia esatta e per niente interscambiabile? Il teatro come un’esperienza per sanare le menti o per creare caos, per capire o per non capire più qual è la linea di confine?
La risposta forse sta solo nella malinconia delle parole lette che si trasforma nella tenerezza del viso degli attori circondati dalla gente che applaude l’ultima scena; sta nella domanda del regista “Belli gli applausi?” a un protagonista e nella sua risposta “Applausi belli, sinceri”.

Francesca Bucella

A VOLTE E' MEGLIO SCREARE

Intervista, tra teatro e follia, a Giuliano Scabia
Con spettacoli e testimonianze sul rapporto tra psichiatria e arte, il progetto Out/fuori, organizzato dal Centro di promozione teatrale La Soffitta, ha ospitato Giuliano Scabia, scrittore, regista e pedagogo teatrale. Nella mattinata di studi il suo contributo è stato letteralmente doppio: ha incarnato, Peppe dell’Acqua, psichiatra e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, assente per motivi di salute, leggendo alcuni brani dal suo libro Non ho l’arma che uccide il leone. L’intervento del “vero” Scabia è stato un discreto commento alle pagine del medico, continuatore dell’insegnamento basagliano, che illustrano la situazione della psichiatria italiana, nella quale Scabia ha portato con forza l’esperienza della sua pratica teatrale: nel ’73 il regista penetrò la realtà dei manicomi realizzandovi con i pazienti un laboratorio, nel segno di Marco Cavallo. All’interno di Out/fuori c’è anche un suo spettacolo che rievoca quell’esperienza: La luce di dentro. Viva Franco Basaglia, in collaborazione con l’Accademia della Follia di Claudio Misculin. Nell’ex ospedale di Trieste, proprio nel ’78, quando le sue mura venivano abbattute per effetto del lavoro di Basaglia e della legge 180, Misculin inizia il suo progetto di lavorare con i malati psichiatrici, conducendo numerose esperienze creative e terapeutiche sulla diversità con attori “a rischio”. Mentre i membri della compagnia preparano la scena per la serata nel teatrino dei laboratori DMS, cerchiamo di approfondire questi contributi con Scabia stesso.

Mi ha colpito il titolo di un suo scritto: L’arte non cura niente, compreso nel volume Il tremito. Che cos’è la poesia? del 2006. Che rapporto vede tra arte e terapia?
Se penso ai miei amici artisti, sono quasi tutti finiti male: alcolizzati, suicidi. Tristi. Cos’è che rende allegri? Cosa può scatenare le endorfine? Nel momento in cui giochi – e il teatro è gioco, non lo sovraccaricherei di troppi compiti – stai bene, hai entusiasmo. Il teatro, come la danza, ha bisogno del corpo, e questo, anche per chi non ha problemi, porta sempre a scoprire parti di sé che non conosceva. C’è un ragazzo del gruppo che ha iniziato da 5 mesi, ha debuttato a maggio. Era un sasso: con il lavoro fatto ha iniziato a sapere che aveva le gambe. In questo senso Claudio Misculin lavora tantissimo, con esercizi più o meno difficili, anche acrobatici a volte. Terapia è una parola pericolosa perché comporta dominio (farmacologico, psichiatrico, medico) e dipendenza; una società che chiede tanta terapia è dipendente. Il risultato massimo per un medico è che un paziente non abbia più bisogno della terapia, dell’ospedale. È questo il significato originario di qualsiasi cura: ridare libertà. Ognuno di questi ragazzi ha un suo problema particolare, una sua storia; ma riescono a venire qui da soli, senza essere accompagnati.

Cosa le sembrò, al suo apparire, la legge 180 del 1978 sulla chiusura dei manicomi?
Questa legge, chiamata erroneamente legge Basaglia, è stata fatta dai democristiani con una rapidità inaudita; Basaglia non ha potuto che accettarla e rimboccarsi le maniche per continuare il suo lavoro. Avevo già fatto le mie esperienze nei manicomi, con i pazienti e con l’equipe dei curanti; avvertivo che c’era un enorme movimento che supportava questa scelta. Erano anni duri, durissimi. Stava finendo l’onda bella degli anni di liberazione: con la pazzia delle Brigate rosse, si stava facendo peggio di prima. Non ho mai letto il testo della legge 180: mi sono fidato dei racconti di altri. Con qualcuno ho avuto modo di confrontarmi, per esempio sul ruolo del sindaco nel Trattamento Sanitario Obbligatorio: da un lato l’essere svegliati alle due di notte per decidere un ricovero di qualcuno che nemmeno conosci, dall’altro la funzione di padre della comunità.

Il suo fare teatro l’ha portata a un confronto continuo con diverse tipologie di comunità. Com’era quella del manicomio di Trieste
Nel manicomio c’era un’umanità molto diversa dalle altre, molto simpatica. Ognuno di noi è matto a modo suo: uno suona la fisarmonica, uno sa tutte le canzoni, un altro si muove in un modo tutto suo. Erano una comunità solo perché abitavano lì. Quel manicomio era semiaperto; il luogo centrale era la sala dell’assemblea delle cinque, dove si analizzava la situazione e si parlava anche di politica. Venivano anche i matti, e alcuni se ne andavano quando si facevano discorsi difficili, pieni di termini sinistristico-marxiani. Mi piaceva pensare quella sala come la piazza di un grande paese dove tutti venivano anche senza far nulla. I laboratori a ore, in una istituzione così segnata da vincoli e orari, avrebbero rischiato di diventavate una costrizione: era meglio screare.

Quali riflessioni sulla lingua ha maturato in questa esperienza?
Per lingua intendo la quantità di espressione che uno ha. Se uno che è rigido e bloccato dalla malattia inizia a fare un passo e racconta con il corpo una storia (che intuisci essere quella di Cappuccetto Rosso perché magari la disegnava poco prima), ecco: in quel momento passi la soglia e osservi la lingua di cui è formato. Siamo un sistema linguistico fatto di gesti, parole, ascolti, annusamenti, sguardi: sono coinvolti tutti i sensi. In una comunità che come il manicomio è iperpercettiva – se schiocchi le dita lo sentono tutti – bisogna far emergere quello che c’è dietro ognuno, seguire i sentieri di tante persone, fino a trovare il grande sentiero della liberazione: perché il linguaggio liberato è il linguaggio della follia.

Cesar Brie, che nel suo teatro ha toccato spesso il tema del dolore mentale, ha scritto che “…nessuno crea perché è folle, ma malgrado la follia. La follia non è creatrice.”
È così. Penso alla mostra curata da Vittorio Sgarbi a Siena e che vede esposte proprio in questi giorni opere d’arte sul rapporto tra genio, arte e follia: sono categorie che andavano bene nell’ottocento. Non c’è in tutta la mostra un momento in cui si ricordino le persone che, come Basaglia, hanno fatto la rivoluzione della psichiatria. In mezzo a questo romanticismo d’accatto, non c’è nessun riferimento al manicomio di Volterra, il più grande manicomio italiano, dove già dal 1910 si usava l’ergoterapia, si tentava di migliorare le condizioni dei pazienti con attività lavorative ed occupazionali. La follia è un momento di sofferenza tremenda, depauperazione, squallore, perdita dell’io, della presenza di sé; ci si può far male e si può fare male. La follia è un momento in cui si sta male, male e male.

Guardandosi attorno nella scena italiana, vede altre esperienze che cercano di continuare a intrecciare il lavoro teatrale e la follia?
Vedo molte esperienze in tutta Italia, da Triste a Parma, da Volterra ad Arezzo. Nascono dalle persone, più che dai servizi, dall’incontro tra persone convinte che il teatro possa funzionare in questi contesti. Condividono l’idea di teatro come cammino, come un brainstorming continuo. Io ormai partecipo solo se mi chiamano i matti o gli altri matti, quelli del teatro; altrimenti, faccio una camminata notturna e resto a casa scrivere. Quello che ho scoperto, se faccio una esperienza diversa, lo scopro scrivendo; grazie al margine del linguaggio posso vedere quello che sta succedendo a me e intorno a me. Ad esempio, il lavoro che si sta facendo a Trieste con gli anziani è impressionante: ho visto degli ultrasettantenni portati in scena, con la partecipazione dei servizi psichiatrici. Alcuni avevano l’Alzheimer e fino a pochi mesi prima erano come mummie: in scena discorrevano, scherzavano. Bisognerebbe tirarli fuori: ce ne sono 3500 solo a Trieste stivati in strutture; le famiglie non riescono più a prendersene cura. Con loro non sai mai se verranno in scena, fino all’ultimo possono avere un crollo improvviso. Ma è in questa fragilità che il teatro rivela se stesso.
Stefano Serri

martedì 17 marzo 2009

DUE UOMINI ROSA

SHAKESPEARE/VENERE E ADONE - Valter Malosti

Due colori, il bianco e il rosso, combattono macchiando la storia di ogni arte che avvicina l’amore; si trovano, variamente intrecciati, anche nel poema di Shakespeare Venere e Adone, tradotto e messo in scena da Valter Malosti. All’inizio la verginità ritrosa del ragazzo (l’amico bianco e bianco nemico) combatte contro il desiderio scarlatto della dea, su una pedana quadrata di ottanta centimetri appena. Nel finale, il sangue cola dai gigli, ribadendo la separazione tra le due tinte. Non è mai possibile dunque la sintesi, il rosa?
Rispettando la scrittura lirica con l’interpretazione a una sola voce, la Venere di Malosti ne copre ogni voce, del narratore come dei personaggi, mentre Daniele Trastu è il corpo muto e danzante di un Adone spogliato, abbracciato e percosso. A fatica, dopo ritrosie e incitamenti, arriva un bacio. Solo una notte è trascorsa insieme: il giorno dopo la dea scopre che l’amato, e con lui l’amore, è morto durante la caccia. Dalle sue ferite nascono gli anemoni e s’imporporano anche le rose, i fiori di Venere fino allora pallidi. Una traduzione lineare e fedele, incipriata appena dall’inflessione partenopea che insaporisce la recitazione della dea, è alla base di una polifonia potenziata dall’uso di microfono, registrazioni ed effetti sonori. L’immancabile Purcell si mescola ad altre tracce musicali, per lo più novecentesche; per Adone, ecco un clavicembalo sovrapporsi al segnale acustico di un telefono in attesa o occupato. Sul palco, un carrello scorre portando i due interpreti, circondato da una scena essenziale rianimata dalle luci.
L’interrogativo iniziale torna anche a proposito della scrittura scenica: il bianco della poesia e il rosso dello spettacolo riescono a unirsi? Sembra regnare la dissociazione: un corpo parla e l’altro si muove, la scena si fa dinamica tramite le luci ma gli attori restano inchiodati a una piattaforma. Il rumore, anzi, il suono è rosa: la mediazione avviene nella dimensione fonica, al crocevia tra emissione corporea e semantica testuale. Non solo sintesi ma dialogo e tentativo di sedursi e compenetrarsi.
La prerogativa dell’uomo, rispetto a dei e animali, non è avere il sangue o l’anima, ma entrambe: solo l’uomo ha la pelle. L’evocazione delle bestie, dal cinghiale portatore di morte ai cavalli che incarnano il desiderio sfrenato, permette all’interprete brani fragorosi che strappano applausi. Il divino si veste d’impotenza e nostalgia, sconfitto alla fine, nonostante vane invocazioni, da qualcosa troppo grande: la morte.
Nel 1593 la peste costringeva Londra a chiudere i teatri; in quell’anno il bardo pubblicava il poema erotico-pastorale, drammatico in potenza se non nella forma. Il tema era adeguato al propagarsi dell’epidemia: il decadere della bellezza fino alla sua morte. Il dedicatario era Henry Wriothesley, conte di Southampton; il legame erotico tra i due, riverberato anche nei sonetti, arricchisce l’interpretazione en travesti di Malosti con richiami extratestuali, come evidenzia il titolo. Le indagini biografiche su quel rapporto non sono del tutto esaurienti; ci piace pensare che anche in questa coppia di uomini, mascherati in fiori e divinità con la poesia, forse si è realizzato questo colore così difficile.

Stefano Serri

UN VASO COMUNICANTE TRA L'INTIMO E L'UNIVERSALE

INCONTRO CON CESAR BRIE

Per questo seminario coordinato da Cristina Valenti, il titolo scelto è lungo e articolato: Il teatro, il presente, la forma, la persona, l’io e il noi, l’attore. Sembra un possibile schema vuoto per uno spettacolo del gruppo che Brie ha fondato, il Teatro de los Andes: magari proprio per Odissea, che ha da poco debuttato in teatro. Il regista argentino dichiara di voler seguire per le sue riflessioni una sentenza scorretta ma utile: non si fa teatro senza fare autobiografia.
I suoi genitori recitavano: ruoli comici il padre, più drammatica la madre. L’unico dei loro figli a non recitare era proprio César: per timidezza. Preferiva scrivere; ma scrivere non aiuta sempre a rimorchiare: da qui la svolta verso il teatro. Fuggendo la violenza dell’America Latina, inizia il suo esilio in Italia, dove collabora ai primi centri sociali e impara, attraverso spettacoli che oggi giudica negativamente, la differenza tra chi è commediante (vuole piacere) e chi è attore (vuole inquietare). Anche il mimo, inteso come tentativo di descrivere il noto, gli appare insufficiente: la vera arte rivela il reale che è nascosto.
Più volte viene in contatto con la realtà psichiatrica: non solo nei suoi testi, ma anche portando spettacoli nei manicomi (collabora con Danio Manfredini) e condividendo con pazienti il percorso teatrale e personale. In uno spettacolo nell’ospedale psichiatrico di Ferrara costringe medici e infermieri a lasciare i pazienti liberi di esprimersi anche nelle prime file, perché sono gli attori gli estranei, gli invasori di quell’ambiente. Affronta in scena l’esperienza dell’elettroshock; il risultato lo considera ancora oggi emblematico della sua arte a quell'epoca: nella corsa incessante e violenta tra due letti verticali, l’attore non sa come usare il corpo e lo sbatte contro il muro. Doveva ancora capire cosa farci, con il corpo.
Una possibile risposta è A rincorrere il sole, nato nel ’78 in seguito all’aumento dei suicidi tra i coetanei e gli amici, proprio nel bel mezzo del grande entusiasmo dei movimenti giovanili. È uno spettacolo molto forte. L’interprete intona un selvaggio solfeggio con un flauto infilato nel culo, ruota e smania fino alla prostrazione; finisce morendo, truccandosi e lasciando il pubblico incapace di applaudire. Tutti piangono e vanno ad abbracciarlo; gli dicono: “ti abbiamo creduto”. Questo spettacolo ha salvato la vita al suo autore esorcizzandone il suicidio. È risultato centrale il lavoro sulle azioni fisiche: un uomo che è in esilio non può fermarsi per dire come si sente, altrimenti crolla nella disperazione. Può solo raccontare quello che fa. Ma dopo A rincorrere il sole, dopo aver capito che il teatro è come la vita, Brie capisce di dover continuare a fare teatro preservando questa coscienza, questa nudità. Gli vengono in aiuto le tecniche: servono a perfezionare la sincerità originaria. Rischiano di diventare un’armatura: nascondono e appesantiscono l’attore che non sa più come toglierle. Vanno messe dietro: solo così sollevano.
Un grande aiuto lo riceve dall’Odin Teatret e da Iben Nagel Rasmussen, maestra e sposa. Confrontando i rispettivi training, la donna colpisce César per una sorta di danza con le idee, evocatrice. Lui, dopo essersi sforzato per due ore di esibire le numerose tecniche assimilate in modo confuso e vorace nel suo apprendistato giovanile, si sente rimproverare: conosce molte parole, ma non sa costruire frasi. Iben lo aiuta soprattutto nella composizione.
Ispirarsi ad altri artisti non è una colpa, anzi. Se di un attore ci interessa qualcosa, occorre imitarlo a lungo, fino allo sfinimento, ma senza mai mostrarlo: occorre dimenticarlo e restare se stessi. Occorre prima di tutto amare ciò che si fa senza innamorarsene: non si deve difendere il proprio errore, ma mantenersi critici verso se stessi. Bisogna poi educare anche l’anima, non solo il corpo e la voce: meglio un attore inesperto ma trasparente che l’artista esperto nascosto sotto la corazza delle tecniche. L’ attore è una domanda empirica: come faccio questa cosa con questo corpo? Tenta di dire “io esisto” attraverso un personaggio o una storia per dire “voi esistete”.
Attraverso la messa in scena dell’Iliade alcuni anni fa, Brie si era proposto di segnalare al pubblico i ritorni e le metamorfosi della violenza, partendo dalla situazione boliviana per allargarsi a quella mondiale. Il secondo poema omerico è un libro molto più complesso: la vicenda di questo eroe moderno si snoda tra luoghi ed età diverse. Il nucleo dello spettacolo è stato il tema della migrazione. In Bolivia, il numero degli esuli è impressionante; basti pensare che la principale voce dell’economia nazionale sono le rimesse, gli invii di denaro da parte di cittadini boliviani residenti all’estero: spesso espulsi o partiti per ragioni economiche, spediscono più soldi che non i cosiddetti “paesi investitori”.
I mostri che minacciano Ulisse e i suoi compagni diventano i pericoli che i fuggiaschi incontrano nel loro viaggio verso l’America: Cariddi è il Golfo del Guatemala, dove affondano parecchie imbarcazioni. Nello spettacolo sono in scena anche i mercenari che abbandonano i profughi nel deserto, o i volontari americani che vegliano sulla frontiera, un vero e proprio muro impenetrabile. Ma il teatro politico deve anche essere efficace. Alcune di queste scene verranno probabilmente tagliate nelle prossime versioni dello spettacolo: mentre in Bolivia avrebbero interpellato direttamente il cuore e il vissuto di tante persone, il pubblico italiano ha reagito molto tiepidamente.
Una prima fase del lavoro sulla riduzione del testo, svolta con attori poi esclusi dalla messa in scena finale, si concentrava sul tema: l’Odissea e noi. Veniva chiesto a ognuno di lavorare su personaggi ed episodi del poema, calandoli nel proprio vissuto: quando siamo stati Penelope? Quando Calypso? Chi è il nostro Polifemo? Cos’è per noi il canto delle sirene? Lo spettacolo all’inizio consisteva nel montaggio di queste visioni moderne dell’Odissea. C’è un rapporto tra io e noi, c’è un vaso comunicante tra l’intimo e l’universale. Quando qualcuno racconta qualcosa di sé, quelli che ascoltano devono poter dire anche loro “IO”. Viviamo raccontandoci; la narrazione dilata, ferma e vince il tempo: ci permette di rivedere la nostra vita. Agli artisti non basta raccontarlo a qualche amico: vogliono creare opere. Può succedere, come per Kantor, che l’autobiografia dell’artista diventi universale. Per far questo è centrale il ruolo del coro, inteso non come un insieme di persone che ripetono la stessa cosa, ma come il luogo dove il mio diventa nostro. Un coro di unicità: come nei lavori di Pina Bausch. Non bisogna mai smettere di essere unici. Occorre condividere qualcosa con tutto il pubblico: non portandolo all’immedesimazione, ma al riconoscimento nell’opera di qualcosa che gli appartiene. Così, nell’Odissea, c’è chi dirà: anch’io, come Nausicaa, amo una persona irraggiungibile; come Penelope, anch’io sto aspettando il ritorno di qualcuno.
Un personaggi particolare è quello di Telemaco. Per il regista, la ricerca del padre richiama il suo essere rimasto orfano da giovane, ma anche la recente nascita di una figlia. Il padre era da lui amato e temuto. Quando doveva andare dal medico, la madre lo faceva entrare sempre da un ingresso laterale che permetteva di saltare l’anticamera in sala d’attesa. Il padre, invece, si metteva sempre in fila con gli altri: l’amore è anche etica. La vita non solo ci divora, ma ci risarcisce di qualcosa: quando ha visto gli occhi della figlia, César Brie ha creduto di rivedere quelli del padre: “dalla culla mi guardano gli occhi che io ho guardato dalla culla.” Si commuove, in certi momenti, vicinissimo alle lacrime: a volte pieno di una rabbia ancora viva. Il parlare di realtà così intime, dice, fa parte del suo lavoro: il teatro rende sociale l’intimità. Questo dovrebbe aiutarci anche a non fissarci su una singola condizione nella quale si trova un uomo, ma a vederne gli aspetti nascosti: una persona è molto più ampia di una condizione. Così, raccontare una storia diventa testimoniare la verità della persona, la propria o quella di un altro. “Testimoniare: ecco la mia Bibbia!”

Stefano Serri

HO VISTO OMERO CANTARE

ODISSEA - Cesar Brie e Teatro de los Andes

C’è un forte incanto, un firmamento intero di storie e di ricordi carburante sopra il palco. Sembra che gli uomini, come le stelle, possano stare insieme suggerendo nuove forme oltre la propria. Non c’è fretta di tornare a casa, su questa zattera che è il teatro, dove con gli occhi puoi vedere i canti di un uomo – forse vero, forse leggendario – che dicono sia stato cieco e che forse non ha mai scritto nulla in tutta la sua vita. Quell’enciclopedia con le ruote che è l’Odissea diventa sul palco una collana di episodi, con pietre più pesanti e altre più trasparenti; alcune sono lacrime perfette in forma di parole, altre hanno una sagoma buffa con dentro il corpo ancora vivo di citazioni alate. A unirle, un filo di canne, come quelle che, raccolte nella città del Teatro de los Andes, Sucre, ripartiscono in strutture modulari lo spazio scenico (che sia Itaca o l’America, le faticose scale di una reggia o il segreto di una capanna rotonda), garantendo una continua semitrasparenza, un frastagliarsi della luce e un persistente sciabordare a ogni movimento degli attori.
La poesia, che Brie ha spinto avanti a sé in quelle confessioni a bordo-palco come Il mare in tasca, qui prende l’epica per mano: tutti i personaggi diventano gli aedi della propria vicenda (anche il cane Argo si racconta) e stanno nel corpo del poema con la loro visione della vita, qualunque essa sia: quella dell’unica lente d’occhiale scura del malavitoso Blacky Polifemo come quella di Nausicaa, ragazzina stupita sui trampoli. Più che monologhi, sono come lettere infilate nelle bottiglie vuote del pubblico. L’epos si appoggia al racconto in terza persona di Alice Guimaraes–Atena, mentre il dramma irrompe nei paralleli tra la storia antica e quella nuova, che a volte è già marcia appena nata: la violenza del sistema americano, dèi che ricevono ordini dai cellulari, i passaporti negati al deportato errante. Il bisogno universale espresso è il recupero di un contatto con chi è lontano: tornare alla casa del padre. Difficile dimenticare che Brie, qui impegnato nella drammaturgia, nella regia e nelle luci, il padre lo ha perso quando era molto giovane: l’eco autobiografica più sensibile si avverte nel Telemaco di Juliàn Ramaciotti come nell’Ulisse di Gonzalo Callejas. In cerca di contatto anche con i morti, tutti hanno il desiderio di raccontare la propria vita: mostrare come migranti la cartolina delle loro città natali a chi, forse, non ne capisce nemmeno la lingua.
Pur se con momenti deboli, soprattutto nella seconda parte, anche per l’abuso dei medesimi espedienti (come la ripresa a più voci di un brano o i cambi di scena insistiti), questo kolossal di quasi tre ore riesce ad abbinare alla varietà delle soluzioni la coerenza del progetto, restando fedele all’idea del gruppo di un teatro apolide e politico. La compagnia boliviana mostra artisti completi, capaci della satira a ridosso dell’idillio, dell’acrobazia rischiosa insieme a semplici melodie.
Brie crea, con dieci attori che coprono molteplici ruoli, un caldo poema umano. C’è violenza, come già in Iliade; ma qui diventano prove di forza anche la lontananza e l’amore, come mostra Calypso nel suo agonistico addio a Ulisse. Se nel primo capitolo della saga omerica, messo in scena nel 2000, la chiave ermeneutica era il pensiero di Simone Weil, qui i rimandi si moltiplicano, da Pascoli a Joyce, unificati non da un referente letterario quanto da uno stato esistenziale: quello del migrante. La tessitura dello spettacolo, un lungo lavoro svolto con il gruppo all’ombra del difficile contesto boliviano, ricorda la tela di Penelope: un opera solare interrotta dalla ferocia notturna della guerra, dal mare che inghiotte gli esuli, dal sistema che marchia gli stranieri. Resistere insieme in mezzo alle onde della Storia non mi è mai sembrato tanto necessario.

Stefano Serri

lunedì 16 marzo 2009

UNA DIVINA MACCHINA DI DESIDERIO E MORTE

SHAKESPEARE/VENERE E ADONE - Valter Malosti
Spettacolo originale e travolgente è Shakespeare/Venere e Adone di Valter Malosti andato in scena il 3 marzo all’Arena del Sole nella sala Interaction, realizzato dal Teatro di Dioniso, presentato in collaborazione con il Centro teatrale La Soffitta. Soltanto due attori: uno straordinario Valter Malosti, che si è occupato anche della traduzione del testo e della ricerca musicale, protagonista indiscusso, unica voce sul palcoscenico, e un espressivo Daniele Trastu, muto in scena, abile danzatore, che fa parlare il suo corpo. Venere e Adone è un poemetto erotico-pastorale che William Shakespeare dedicò, nel 1593, al suo protettore, il giovane conte di Southampton. Una dea innamorata, dominata dall’eros, pazza di desiderio, e un giovane uomo bellissimo, che le sfugge, finendo ucciso tra le zanne di un cinghiale, sono i due protagonisti di Venere e Adone, interpretati magnificamente da Valter Malosti e Daniele Trastu. La scena si apre con un leggero sottofondo musicale. Al centro del palco si vedono due binari, dove appare magicamente una piccola pedana, di appena ottanta centimetri, che trasporta i due attori. La pedana è un teatro-carro che arriva di fronte a noi da un altro luogo e forse anche da un’altra dimensione temporale, con sopra la dea dell’amore, abbracciata ad Adone, quasi a formare un unico corpo. Un carro che simboleggia lo scorrere del tempo, la brevità della vita e l’effimero dell’amore, ma anche un congegno cinematografico che si muove all’interno di una scena surreale, astratta e carica di piccoli misteri accentuati da giochi luminosi. Come afferma il regista Valter Malosti, Venere è presentata come una dea ex-macchina, portatrice di grande desiderio ma anche di morte per il suo oggetto d’amore, Adone, e sex-machine, macchina formidabile che tritura suoni e sputa parole. Creazione moderna, di forte impatto sia scenico che emotivo, pronta sempre a stupire come un’opera barocca che mentre suscita meraviglia rimanda al pensiero della morte e della fragilità dell’uomo. Malosti riprende la concezione drammatica di eros e thanatos, elementi fortemente intrecciati nella vita. Egli crea un’atmosfera che rievoca il realismo di Pasolini e richiama anche all’ironia napoletana, quando alterna una recitazione in dialetto a un’altra forte, incisiva e solenne, concentrata su vari timbri di voce, che rimandano al grande Carmelo Bene.
“Un intreccio di eccitazione erotica, dolore e freddo umorismo” come la definisce Stephen Greenblatt, professore all'Università di Harvard. Venere e Adone non solo fu la prima opera di Shakespeare ad essere stampata ma anche quello che oggi si direbbe un successo editoriale. Dopo Macbeth, Valter Malosti ritorna a Shakespeare portandone in scena un piccolo capolavoro, un concentrato di furbizia, comicità naturale e istintiva sensualità, che diviene per il regista torinese un punto di partenza per una ricerca sulle variazioni, le forme e i contrasti inerenti al tema “amore”. Malosti, regista e attore protagonista interpreta en-travesti una Venere capace di condurre il pur solitario Adone, danzando e giocando con l’eros, in un tragico finale. Un’educazione sentimentale al contrario!
Irene Cinti

martedì 10 marzo 2009

IL MIO SEGNO PER UN CAVALLO

LA LUCE DI DENTRO. VIVA FRANCO BASAGLIA - Giuliano Scabia

Se si scrive un’acclamazione, come nel titolo dello spettacolo di Giuliano Scabia, si usa spesso l’intera parola: Viva. Quando la si scribacchia sui muri, magari cantandola, c’è un segno più semplice: W. Sembra irrispettoso affiancare questa letterina, sola ma vitale, a problemi gravi come l’attuale condizione della psichiatria in Italia, che a molti appare minacciata da restaurazioni o degenerazioni. Ma se questa ovazione la riserviamo a un amico che si vuole ricordare, qual è la grafia giusta?
Con questo spettacolo mi preparavo a palpare un documento: non un resoconto
grigio, ma un ricordo azzurro. I nove attori dell’Accademia della Follia, insieme al fondatore Claudio Misculin, hanno debuttato con La luce di dentro nel 2008: in quell’anno Trieste ha ricordato trenta anni di vita della Legge 180 sulla chiusura degli ospedali psichiatrici, ma anche il centenario della costruzione del manicomio di San Giovanni dove Franco Basaglia iniziò la sua riforma. La rappresentazione si preannuncia quindi come il giusto coronamento di una giornata, intitolata Out/fuori, che il centro di promozione teatrale La Soffitta ha dedicato al rapporto tra teatro e follia.
Il nucleo testuale, tratto da Passeggeri a Trieste di Gianni Fenzi, rievoca la rivoluzione sanitaria e culturale vissuta da chi nel 1973 partecipò al laboratorio condotto da Scabia nel manicomio triestino sotto il segno di Marco Cavallo, l’animale adibito al trasporto della biancheria dei reparti e mitizzato come custode dell’umana stoffa dei pazienti. Alla storia si aggiungono poesie, animali, testimonianze, dialetti, le canzoni nate in quell’esperienza teatrale e la felicità dei giochi verbali, vocali e fisici.
Con l’Accademia della Follia abbiamo in scena corpi che conoscono senza intermediari la malattia psichica
e che hanno incontrato il teatro: forse appiglio, forse nuova voce. I benefici, raccontano fuori dalla scena, li stanno vivendo: per qualcuno saltare è una conquista. Misculin, interprete di Basaglia, ne è il capocomico istrionico, un virtuoso di violino che suona in un quartetto d’archi ma che non rinuncia alla sua superiorità tecnica. Operazione coerente quando la partitura lo giustifica, ma che accetta il rischio di stonare e far stonare gli altri.
Gli attori non mascherano il loro limite oggettivo fisico; non l’esibiscono al modo della Raffaello Sanzio come sacro, né lo trasformano in autobiografismo. Ho condiviso il dolore mentale delle vite alienate offerte da Danio Manfredini nei suoi Tre Studi per una crocefissione. Ho seguito Cristina Crippa e Marco Baliani nell’autobiografia di una donna internata suo malgrado, Adalgisa Conti. Tre atti uni
ci di Pinter mi hanno permesso di vedere pazienti psichiatrici recitare, guidati da Nanni Garella: il loro disagio, scritto sul programma di sala, non definiva lo scopo né il loro modo di essere in scena come professionisti.
Scabia come regista crea uno spettacolo acerbo e incerto, ma fresco e festoso; ci conferma che l’esperienza deve proseguire oltre la performance, magari contagiando passeggeri e strade. Anche per lo spettatore lo spettacolo è solo una sosta, un esito parziale di un lavoro ben più lungo su di sé e con sé.
Cosa c’era in scena? Un cubo, piattaforma per un’attrice. Un siparietto. Poco altro, leggii e sedie. E la testa di Marco Cavallo. Se immagino la cartapesta usata nel ’73, appare lucida e anonima. Ai tempi del laboratorio
si scriveva W MARCO CAVALLO: l’animale era stato pensato, creato e desiderato – con il primo segno dell’amore, che è dare il nome – portato tra le strade, non lasciato solo ma corredato di un’amica. Qui torna oggetto di scena, frammento di un tempo troppo “altro” da noi. È più vivo e significativo nel filmato amatoriale dell’epoca, proiettato per pochi momenti, che nel suo concreto emergere dietro il sipario. Chi ha voglia di tornare a sporcarsi le mani con colla e barattoli di azzurro?















Stefano Serri




ATTENTATO A(L) TEATRO

BORIS GODUNOV - Fura dels Baus

La Fura colpisce ancora e dimostra di saper sempre come catturare l’attenzione di pubblico e media.
L’ultima irruzione del gruppo catalano prevede addirittura un commando di terroristi che sequestra sala e spettatori. Il riferimento è ai fatti di cronaca del 2002, quando un gruppo d
i 40 militanti del movimento separatista ceceno sequestrò gli spettatori del teatro Dubrovka di Mosca interrompendo la rappresentazione di un musical e pretendendo l’immediato ritiro delle forze russe dalla Cecenia e la fine della guerra.
L’inizio dello spettacolo della Fura simula perfettamente l’attentato: gli spettatori assistono a una pacata messinscena del Boris Goduov di Puškin, fino a quando l’incursione di un gruppo armato conquista palco e platea. Silenzio, attesa e un po’ di suspense catturano i presenti. Poi il meccanismo è chiaro, piani drammaturgici e interazione delle tecnologie si intrecciano per affrontare contenuti forti e provocatori, che toccano soprattutto per la grande attualità.
La storia dello zar Godunov, i terroristi, la ‘diretta’ dal teatro e i flash sui grandi potenti che devono trovare una soluzione per liberare il pubblico
sequestrato hanno come filo conduttore unico la violenza, i suoi rapporti con il potere e la politica da un lato, l’arte e il teatro dall’altro. Così la trama prosegue nell’alternanza dei diversi livelli testuali e narrativi, sostenuti da un sapiente uso delle tecnologie che spaziano da scenografie virtuali e filmati proiettati su grandi teli-schermi a telecamere a circuito chiuso e riprese live. Interessante anche il lavoro compiuto dal drammaturgo David Plana, che ha riadattato l’opera di Puškin, farcendola abbondantemente dei discorsi politici più disparati, da quelli di Bush e Che Guevara, passando per Sarkozy e la cronaca quotidiana.
Un tema, quello del
la violenza, che oltre a essere fortemente presente nella storia del potere e dei potenti, attraversa anche tutte le fasi dell’arte, che di volta in volta la rifiuta e la denuncia o ne fa un programma di rigenerazione come nel caso di Artaud.
Le tecniche usate in Boris Godunov ricalcano perfettamente la modalità operativa caratteristica d
el gruppo fin dagli anni ’80, e anzi permettono l’avvicendarsi di una metateatralità contrappuntata di coinvolgimento, rapimento e rischio che rimandano al tentativo dei maestri del ‘900, Artaud in testa, di trasformare l’evento teatrale in un’esperienza relazionale e partecipativa.
Nonostante questo sia uno degli spettacoli meno ‘tecnologici’ del gruppo, non si può negare, infatti, che ancora una volta l’esperienza finale può risultare interessante proprio gr
azie agli strumenti multimediali usati, fondamentali per raggiungere quella partecipazione e invasione verso la platea, che da sempre contraddistingue i lavori della Fura. Avvalendosi del contributo di performer, tecnici e musicisti spagnoli e non solo, la compagnia si è concentrata nel tempo sulla ricerca di una dimensione prevalentemente multimediale dell’evento scenico, fino a sperimentare le possibilità del teatro in internet. Nel corso degli anni gli spettacoli (ricordiamo Accions, Suz/o/Suz, Noun, Naumon, Metamorfosis, ecc.) si sono confrontati con i mezzi espressivi più disparati, trafugando da arti plastiche, danza, mimo, live music, video-installazioni e mettendo in mostra elaborate macchinerie sadiche, corpi nudi, materiali riciclati e pirotecnica. La abilità e la peculiarità rispetto a esperienze simili sta nell’esplorazione della autenticità che le tecnologie possono restituire alla rappresentazione, contrariamente ai pregiudizi che ancora oggi esistono nei confronti di questi strumenti, generalmente definiti freddi e alienanti, incapaci di confrontarsi con l’immediatezza e presenza dell’evento teatrale.
Conoscendo il gruppo, viene da chiedersi che fine abbia fatto quel trio di ragazzi che nel clima post-franchista girava la Catalunya con performance di strada facendosi chiamare Parassiti di fogna (questa la traduzione di Fura dels baus data da un critico inglese). Piccoli scarafaggi crescono e si moltiplicano: ora la compagnia ha ben sei registi ed è nota come uno dei performance group di maggior successo della regione autonoma spagnola, che pure vanta importanti nomi nel campo delle nuove tecnologie applicate al teatro (Konin Thtr o Canellas, per citare i più noti). Ma spulciando un loro manifesto del 1984 non affiora niente che non può essere percepito anche ora: La Fura non è un fenomeno sociale, né un collettivo politico, bensì il risultato della combinazione di elementi che mutano nel corso della sperimentazione, senza regole o traiettorie prefissate. E’ un ingranaggio meccanico e produttivo che non vuole inserirsi in una tradizione e produce spettacoli grazie all’interferenza costante di intuizione e ricerca; vuole realizzare performance come un esercizio pratico volto all’aggressione alla passività dello spettatore.
Ecco perché sembra che pur affrontando un tema così scottante come quello del terrorismo, il gruppo decida abilmente di restarne fuori e giocare la partita dalla panchina del politically correct: un ruolo che delude qualche spettatore che vede nello spettacolo la rivincita di un teatro politico stile Living, ma che placa l’animo di molti nella certezza che è solo un gioco, un grande reality-show in cui tutto è preparato e nessuno verrà ferito.
Contenuti e temi a servizio della sperimentazione, dice un’attrice durante la conferenza presso i Laboratori DMS, in occasione della presentazione di Boris Godunov a Bologna. Rimane il dubbio di una sperimentazione al servizio del mercato, ma se è la strada per riportare adepti tra le fila della platea, si può cominciare anche da un finto attentato.

Elisa Cuciniello

X (ics) HALLE NEUSTADT

CONVERSAZIONE-RECENSIONE CON ENRICO CASAGRANDE E DANIELA NICOLO' (MOTUS)

Un viaggio nei meandri della gioventù ai margini, inquieta, disorientata negli spazi deserti e infiniti della contemporaneità. Il gruppo Motus, in questa terza tappa del progetto partito da Rimini nel 2007, scende in campo a sondare le visioni, le ragioni, le poetiche degli adolescenti alle soglie della vita adulta, residenti in una città quasi fantasma della ex-DDR, spopolata drasticamente dopo la chiusura di grandi fabbriche, Halle-Neustadt. Il dimezzamento degli abitanti dopo la caduta del muro di Berlino e della DDR ha provocato in questa città l'abbandono di numerosi spazi abitativi, industriali, commerciali, che oggi giacciono vuoti. Non stupisce che gli adolescenti, alle prese con la libertà appena guadagnata e l'istinto di dar respiro alla propria identità, si dedichino al pellegrinaggio in questi posti dalle porte spalancate. Ecco i (non) luoghi d'incontro tra gli artisti riminesi e i residenti. Le telecamere seguono una figura alta, magra e bionda, ambigua, asessuata come Silvia Calderoni sui pattini, epicentro delle immagini video e della scena dal vivo.

Il progetto l'avete creato in stretto contatto con la performer principale. Cosa ha significato per voi, drammaturgicamente ed esteticamente, impostare il lavoro attraverso l'ottica di una figura come Silvia Calderoni?
D.N.: In X, già l'incognita del titolo denota questa ambiguità, mistero. Il suo essere una figura 'incatalogabile', nell'ambiguità tra maschile e femminile, qui in Romagna era meno evidente. Ma quando ci siamo spostati in Francia, nei quartieri magrebini, gli appellativi che gli venivano lanciati erano più carichi; l'interrogazione sul suo essere maschio o femmina era molto più ricorrente. A Napoli pensavano tutti che fosse straniera, quindi l'estraneità rispetto al luogo era più forte, al di là del suo vestirsi. Silvia svolge per sé anche una ricerca nell'immaginario dei vestiti ed è molto creativa anche da questo punto di vista. Ci era piaciuto perché non era un modo di vestirsi omologato. Silvia da sempre nella sua vita crea tanti personaggi e vuole essere eclettica: il fatto del continuo trasformismo è stato amplificato all'interno dello spettacolo. Volevamo che la figura attirasse su di sé l'attenzione, la curiosità, lo scherno. Una figura che notavi e con la quale provavi a relazionarti.

L'attrice durante tutto il progetto è sui pattini. Perchè questa scelta?
E.C.: Per diversi motivi. Quello più pratico era la volontà di partire dalla realizzazione del video/film. Avere una figura sui pattini ti cambia il mondo. Visto che il suo sguardo era quello che dava direzione a tutto quello che gli girava attorno, avere questa marcia in più ci permetteva di captare la realtà in modo diverso. I pattini, gli skateboard, le bmx sono elementi che stanno dentro all'immaginario contemporaneo, riconoscibili per un certo tipo di età o generazione alla quale volevamo riferirci. I pattini sono il motivo più ricorrente in tutte le derive che il progetto X ha avuto.
D.N.: Ci è capitato di leggere un libro intitolato 'Skaters'. Prima non ci siamo mai interrogati sul vivere l'urbano attraverso le ruote. Insomma il libro raccoglie testimonianze, visioni del mondo da parte degli skaters: al centro del libro sta il rapporto continuo con la città, col marciapiede, col superare soglie e limiti, oltrepassare in maniera non convenzionale le varie barriere architettoniche. Ci piaceva quindi il rapporto di rottura con i confini della città e ci interessava dare allo spettacolo l'idea di questo desiderio di slancio. Alcune piccole frasi di Silvia, in voce off, vengono da questo libro.


Nello spettacolo (il sottotitolo è X.03 movimento terzo) non c'è altra scenografia che lo schermo-totem al centro del palco e una panchina all'estremo del proscenio girata con lo schienale verso il pubblico. Siamo in strada, luogo del via vai per eccellenza. Tutto ha un'atmosfera melanconica, grigia, vasta, industriale, vuota. Il montaggio delle scene, grazie soprattutto alla presenza del video, ha un'impronta squisitamente cinematografica. Occupare il buon 50 % della visione scenica con lo schermo è sicuramente una scelta con il suo peso drammaturgico. La conseguenza è una continua oscillazione percettiva tra cinema e teatro, il linguaggio tipico dei Motus.


Nel terzo movimento si ha una drammaturgia dell'esterno/interno. Potreste raccontarci qualcosa sulle scelte con le quali vi siete cimentati nel trattare la trasposizione della memoria nella scatola teatrale?
E.C.: Credo che la sfida più grande sia proprio questa: come fare coagulare, fare diventare ancora vero quello che noi abbiamo vissuto all'esterno. Tutto quel fuori doveva entrare nella scatola nera del palcoscenico; questo è il momento della massima paura, spaesamento, ma anche di massima attenzione creativa. Avevamo scelto di rimandare, riportare con piccoli elementi di sintesi l'ambiente esterno permettendoci una drammaturgia più poetica e sintetica rispetto al raccontare delle storie. Abbiamo preferito dare delle atmosfere piuttosto che raccontare.
D.N.: La doppia natura del video, dello schermo presente in scena è sempre una grande sfida. In Halle Neustadt abbiamo messo uno schermo enorme che può schiacciare gli attori da un momento all'altro. Nel primo movimento c'era proprio questo squilibrio; a parer nostro il video e la presenza scenica dialogavano con difficoltà. Ma in Halle abbiamo trovato il modo per comporre l'immagine: dalle riprese documentarie montate con un montaggio filmico (ci siamo anche rifatti in certi casi al videoclip), l'immagine nitida si frantuma e diventa 'pixelata'. Questa scomposizione del materiale video rende tutto più profondo, materico, vivo: non è più solo un fondale, non è cinema puro ma qualcosa che si frantuma, penetrabile. Alla fine tutto il lavoro cerca di frantumarsi fino al momento dello sfondamento dello schermo quando nel retro si rivela un interno: il vuoto di una stanza dietro lo schermo è un momento molto importante per noi. É una stanza veramente vuota.

Che la scena dei Motus sia viva è fuori discussione. Non c'è racconto, nè cronologia, ma continui sprazzi di atmosfere, motivi, suoni, immagini, apparizioni di persone 'raccolte' durante la residenza. La panchina ospiterà alla fine un testimone del luogo per ogni tappa diverso: per la recita nella stagione della Soffitta un'anziana con l'accento bolognese che con il suo racconto traccerà un salto generazionale. Allo spettacolo non manca una linearità poetica. Uno degli elementi che sorregge l'impianto drammaturgico in Halle-Neustadt è il suono. Oltre a trasporre la testimonianza sonora nella scatola teatrale, i Motus fanno vivere il palco in stretto rapporto con le azioni, producendo effetti di forte impatto uditivo.

E.C.: É da un po' che usiamo microfoni come amplificazione dell'ambiente in modo che anche il gesto dell'attore, come la parola, sia sonoro invece che sordo; così che anche il movimento riesce a essere evidente in tutte le sue derive. Specialmente nel lavoro più fisico di Silvia questo diventa marcatura del momento scenico. Il lavoro sul suono è abbastanza stratificato. Siamo partiti per livelli. Il filo conduttore dovevano essere suoni dagli incontri che avevamo fatto con le band giovanissime nei loro spazi di prova. Poi c'è il suono propriamente urbano, degli esterni; il suono del vento in macchina nella telecamera; il livello del quasi suono ma sono parole, racconti, conversazioni casuali riprese in strada che diventano tessuto sonoro, materia.
D.N.: Il corpo di Silvia è stato concepito come uno strumento musicale: le protezioni di plastica, i pattini in relazione allo schermo all'inizio di Halle Neustadt e in Crac. Con l'amplificazione sonora il pavimento diventa qualcosa che percuote, che suona col corpo, con i respiri, senza parola.


La scena 'sensibile' è ancora più accentuata in Crac, performance deriva dell'articolato progetto, sintesi plastica di tutto il percorso. Tutto sembra essere instabile, oscillante secondo l'effetto del suono e della sua eco; sotto la superficie della scena sembra esserci un abisso infinito, buio, vuoto. L'insicurezza, l'incognita è dunque doppiamente accentuata dal contatto tra scena e performer che sembra essere quello tra archetto e viola, col suono che cerca di definirsi nella cassa armonica, il corpo che vibra nell'abisso a trecentosessanta gradi. Magari è un abisso pieno, ma di macerie dimenticate, abbandonate e accumulate dal tempo dove comunque un seme portato dal vento troverà un suo territorio e farà spuntare una piantina, convinta, testarda, che cambierà per sempre quel paesaggio.

Tomas Kutinjač

martedì 3 marzo 2009

LA SOFFITTA VINCE LA SUA BATTAGLIA!

La stagione 2009 della Soffitta è salva! Il responsabile scientifico del centro, Marco De Marinis, nella conferenza stampa tenutasi il 22 gennaio nella sede del Dipartimento di Musica e Spettacolo (Dms), ha illustrato il programma della nuova stagione. Ha esordito, però, con un riferimento alla difficile situazione economica che da diversi anni ormai minaccia la programmazione. Anche quest’anno, infatti, si è dovuto fronteggiare il problema dei finanziamenti; a causa del drastico taglio di fondi alcuni accordi con compagnie, conclusi ormai da tempo, rischiavano di saltare. Il peggio è stato evitato grazie alla collaborazione del Dipartimento di Musica e Spettacolo, dell’intero team e al sacrificio della professoressa Eugenia Casini Ropa che ha rinunciato a inserire in cartellone alcuni spettacoli di danza.

Dopo aver ricordato i nomi degli enti finanziatori, De Marinis ha ritenuto doveroso affermare che finalmente la Soffitta è riuscita a entrare nella rete dei teatri cittadini e regionali, allargando il suo raggio d’azione e questo grazie anche alla collaborazione delle associazioni che da anni si relazionano con il centro, tra tutte l’Arena del Sole, il Teatro Testoni, l’Accademia di Belle Arti, l’Ert, il Mambo.Durante la conferenza sono intervenuti Angelo Guglielmi, assessore alla Cultura e ai Rapporti con l’Università del Comune di Bologna, Paola Monari, prorettore dell’Università degli studi di Bologna, e Giuseppina La Face, direttore del Dipartimento di Musica e Spettacolo.
Ciò che è emerso dai loro interventi, oltre all’ormai nota crisi dei finanziamenti, è la necessità di comprendere quali siano gli effettivi bisogni della comunità, per poterli soddisfare nel miglior modo possibile. Questo obiettivo può essere realizzato solo attraverso “l’unione delle forze culturali della città”, come ha suggerito l’assessore Guglielmi. Ciò significa dotare Bologna di un centro dove sperimentare e concretizzare progetti di spettacolo: La Soffitta potrebbe, anzi dovrebbe essere questo centro e godere di maggiori finanziamenti statali e regionali, evitando spese notevoli per l’Università, garantendo una migliore formazione agli studenti e una migliore proposta culturale ai cittadini.
La Soffitta quest’anno festeggia importanti anniversari che vedono protagonisti il grandissimo regista polacco Jerzy Grotowski e i Ballets Russes di Sergej Djagilev che hanno rivoluzionato il modo di concepire la danza, la musica e le arti visive.
A 10 anni dalla scomparsa, Grotowski viene ricordato con incontri, conferenze e proiezioni di alcuni suoi lavori ancora poco conosciuti. Allo stesso modo verrà celebrato il centenario della nascita dei Ballets Russes, che proprio nel 1909 apparivano per la prima volta sui palcoscenici parigini.
Come di consueto il programma dà ampio spazio a giovani artisti nazionali e internazionali: i Motus con tre spettacoli
X(ics) racconti crudeli della giovinezza, Crac e Run, la Fura dels Baus con Boris Godunov, il Teatro delle Albe con una lettura concerto, Rosvita, e con due incontri, il Teatro de los Andes di César Brie con Odissea e infine Teatrino Giullare con un testo di Thomas Bernhard, Alla meta. Molte le occasioni di incontro e di approfondimento che accompagnano gli spettacoli.
La Soffitta ospita anche due importanti progetti:
Out-fuori a cura di Tihana Maravic sull’attività di Franco Basaglia, e La voce del corpo a cura di Marco Galignano, un ricercatore del Dipartimento di Musica e Spettacolo che ha coinvolto molti studenti in un percorso laboratoriale.
La sezione
Il teatro dei libri rivolge un’attenzione particolare a questo potente strumento culturale. Tra tutti quelli in programma ricordiamo il volume di Luigi Squarzina Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Laminarie: modi teatrali per incoraggiare la fiducia nel fantastico, Storia del Living Theatre Conversazioni con Judith Malina di Cristina Valenti e Il mare dietro un muro. Nostro padre re Lear di Massimo Marino e Roberto Mutti, con le fotografie di Maurizio Buscarino.
Bologna-Napoli 1:1
è l'ultimo incontro che mette a confronto la vita teatrale delle due città attraverso il match tra i critici teatrali Massimo Marino e Stefano de Stefano.
Ma la stagione non si esaurisce nella sola programmazione teatrale; La Soffitta ospita infatti anche opere cinematografiche di rilievo. Quest’anno parte del programma sarà dedicato alla figura di Alida Valli. Altra rassegna cinematografica quella a cura di Rinaldo Censi sul
found footage, ovvero sul recupero di antiche memorie da archivio.
Importante il progetto chiamato
Corto circuito sul ruolo del cinema contemporaneo nella rete.
La sezione danza è investita totalmente dal centenario dei Ballets Russes e presenta sette iniziative a essi dedicate tra cui un laboratorio condotto da Cristina Rizzo e intitolato
L’evidenza del movimento. Disgressioni a posteriori sul progetto coreografico La sagra della primavera di Igor Stravinskij.
Molto attesa la stagione concertistica che prevede ben otto progetti in cui ad artisti ormai noti al pubblico, se ne affiancheranno di nuovi, e tutto ciò per arricchire quanto più possibile il patrimonio musicale non solo degli studenti interessati, bensì di tutti.
Una stagione, questa del 2009, che ha vinto la “battaglia per una dignitosa sopravvivenza”, usando le parole del professor De Marinis, e che è stata ancora una volta in grado di assicurare una ricca ma soprattutto interessante programmazione.

Emilia Biunno

GROTOWSKI: QUALE EREDITA'?


La rivista Hystrio intitola così il dossier dedicato al grande regista polacco scomparso dieci anni fa: i numerosi articoli ripercorrono le diverse fasi della vita del maestro e dell’uomo Grotowski senza però rispondere a questa domanda.
È Marco De Marinis a introdurre nella discussione, riassumendo in poche pagine l’intera attività teatrale di quest’uomo rivoluzionario, soffermandosi sul concetto di teatro come veicolo, come strumento di conoscenza.
Egli riprende le stesse espressioni che Grotowski utilizzava per indicare il suo teatro: non più semplice occasione di divertimento, di svago, ma un momento di riflessione; lo spettacolo che va al di là della parola e del gesto riprodotti in scena, e che diviene lavoro per e sull’attore, finalizzato dunque a chi lo esegue e solo secondariamente a chi lo osserva.
Questi sono gli argomenti che Marco De Marinis ha riportato nel discorso di apertura del ciclo di conferenze del Centro di promozione teatrale bolognese La Soffitta dedicate a Grotowski: un evento che ha visto alternarsi al tavolo dei relatori studiosi che hanno collaborato direttamente con il regista polacco, e che hanno toccato diverse volte l’argomento “eredità”.
Al primo intervento del responsabile del Centro, De Marinis, è seguito quello di Luisa Tinti, ricercatore presso il Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo, La Sapienza Università degli studi di Roma, condirettore della collana “Biblioteca Teatrale” e redattore capo della rivista “Biblioteca Teatrale”. La studiosa nel 1982 ha seguito come assistente e traduttrice Jerzy Grotowski.
Illustrando il suo lavoro di restauro della pellicola de Il Principe Costante, si è soffermata sulla figura di Grotowski conferenziere, un uomo che amava parlare ed essere ascoltato, che aveva notevoli resistenze nei confronti della ripresa video di uno spettacolo teatrale, proprio per l’esistenza hic et nunc di quest’ultimo.
Grotowski, infatti, non amava “fissare” la sua arte, perché ciò avrebbe in qualche modo codificato un metodo di lavoro, una serie di regole da rispettare, mentre egli stesso diceva che “la performance non è una serie di convenzioni accettate come un gioco di ruolo, recitato in una separata realtà teatrale. L'attore non recita, non imita, o pretende. Egli è se stesso”. E continuava “la tecnica emerge dal compimento”, e il compimento era il frutto di un lungo lavoro che l’attore compiva su di sé, sulla sua interiorità.
Essendo estremamente mutevole e libero da ogni convenzione, il teatro di Grotowski non può essere compreso se analizzato da un unico punto di vista. Zbigniev Osinski ha precisato più volte questo concetto nel corso della sua conferenza alla Soffitta.
Egli è uno dei massimi esperti del lavoro del guru polacco. Dopo aver collaborato per molti anni con il Teatr Osmego Dnia a Poznan e con il Teatr di Cracovia, ha creato il Centro per lo Studio dell’Opera di Grotowski e per la Ricerca Culturale e Teatrale di Wroclaw, di cui è stato il primo direttore scientifico e artistico, dal 1990 al 2004. Spetta proprio a lui chiudere questo intenso ciclo di conferenze.
Come ha spesso ribadito Osinski, neanche Thomas Richards, direttore del Workcenter di Pontedera, indicato direttamente del maestro come uno dei suoi successori, e il Centro per lo Studio dell’Opera di Grotowski e per la Ricerca Culturale e Teatrale di Wroclaw possono rivendicare il monopolio del sapere grotowskiano.
Per quanto ci si possa interrogare su chi sia il legittimo erede di questo grande regista, non si arriverà mai a una soluzione, perché il suo teatro non era frutto di nozioni, bensì di idee, di pensieri, di considerazioni sulla vita e sull’arte, e chiunque sia il suo successore non potrà far altro che interiorizzare queste sensazioni e legarle alle proprie esperienze, dando così vita a una nuova tradizione.


Emilia Biunno

domenica 1 marzo 2009

NAVIGAZIONE A VISTA

Conversazione con Marco De Marinis

Al termine della presentazione della stagione della Soffitta 2009, intervistiamo Marco De Marinis, responsabile scientifico del centro, e la sua collaboratrice Silvia Mei.

Professor De Marinis, questa stagione della Soffitta si apre nel nome di Jerzy Grotowski: qual è stato il valore del suo insegnamento?

Marco De Marinis: - Grotowski è stato il primo a non voler fissare un’idea rigida, la sua ricerca è stata volta a chiarire e a smentire che non esistono tecniche. Il senso della ricerca teatrale è incentrata soprattutto sull’esperienza, come caratteristica peculiare. Comunque, tutto il lavoro di Grotowski è denotato dal superamento dei limiti. Non dimentichiamo che quest’uomo di teatro aveva come riferimento registi importanti come Stanislavskij e Mejerchol’d. Bisogna soffermarsi a pensare che attorno agli anni settanta Grotowski teorizza il superamento dello spettacolo, poiché egli crede che la rappresentazione, ormai, non abbia più nulla da dire. Egli si convince che è giunto il momento in cui l’attore deve deporre la maschera per una ricerca di verità intersoggettiva. Grotowski si chiede che cos’è una compagnia senza spettacolo e che cos’è un attore senza pubblico. Da questi presupposti partirà una straordinaria sperimentazione radicale, nota come parateatro.


Secondo lei, qual è l'attualità del messaggio di Grotowski?

M.D.M: - L’insegnamento del fare teatro, di pensare al teatro nel corpo e per il corpo, in altre parole l’idea che l’uomo di teatro deve essere un uomo totale sono problematiche assolutamente attuali. Di Grotowski oggi ci rimane quella straordinaria esperienza legata al secolo scorso, che ha davvero trasformato anche il modo di guardare, di essere spettatore; insomma, fare esperienza col e nel proprio corpo-mente, nel lavoro su se stessi e dell’altro da sé, per sperimentare una pienezza, un’intensità vitale, che appaiono fuori della vita quotidiana. Quando, e nella misura in cui teatro diventa tutto questo, non pare davvero difficile capire come esso ci aiuti, ci possa fare bene, addirittura ci possa rendere felici. Per chiudere l’argomento, quindi, credo che Grotowski oggi abbia davvero tanto ancora da insegnarci e questo oltre che essere un buon motivo per celebrare il decennale della sua scomparsa, è sicuramente un punto su cui riflettere.


Diamo ora uno sguardo a un appuntamento il cui titolo ci ha molto colpito e ci incuriosisce: Ri-scuotere Shakespeare. Perché?

M.D.M.: - In realtà questa è una domanda che non vuole una risposta, piuttosto genera altre domande. Se il lettore può scorgere nel titolo quasi un gioco linguistico, questo non esaurisce il senso del progetto. Per chiarire meglio alcuni passaggi determinanti di Ri-scuotere Shakespeare, possiamo chiedere a Silvia Mei, curatrice dei tre spettacoli shakesperiani, di illustrarci le linee guida.

Silvia Mei: - Da sempre Shakespeare risulta un imprescindibile punto di riferimento nella cultura e nella pratica teatrale contemporanea per la disponibilità drammaturgica dei suoi testi e per la proliferazione di significati. Il titolo della sezione legata agli spettacoli shakespeariani, lo abbiamo pensato in relazione alla riscrittura scenica, che gli stessi registi-attori hanno operato a partire dai celebri testi. Le compagnie che metteranno in scena i drammi di Shakespeare sono composte di giovani e ardimentosi attori, rappresentanti dell’ultima “ondata” del nuovo teatro. Cominciamo con il primo spettacolo, Shakespeare/Venere e Adone di Valter Malosti. Qui si cerca di unire la presenza dell’attore a un'interessante selezione di brani musicali, operando non nell’assenza del testo, ma nella sua ri-scoperta. La traduzione è curata dallo stesso Malosti, e questo già di per sé risulta significativo per poter ri-ascoltare parti del testo inascoltate. Si prosegue poi con Riccardo III di Oscar de Summa. Anche questo è un progetto davvero interessante per la particolare messa in scena operata da De Summa, attore-regista monologante. Ultimo appuntamento è il Mercante di Venezia di Massimiliano Civica, neo premio Ubu per la regia 2008. Questo spettacolo, tra le tre proposte che quest’anno abbiamo in calendario, si evidenzia per un allestimento assolutamente frugale, dove gli attori in scena sono e diventano essi stessi scenografia.

M. D. M: - È evidente che per arrivare a un simile risultato Massimiliano Civica ha operato un lavoro straordinario sui quattro attori, che stanno sulla scena nuda, unico ausilio la maschera.

S. M.: - È quindi giusto sottolineare che gli spettacoli proposti all’interno del progetto sono orientati alla ricerca di un teatro che rimette l’attore sulla scena, ovvero ne riafferma la centralità.


In collaborazione con l’Accademia di Belle Arti, La Soffitta è impegnata quest’anno sulla questione del cosiddetto teatro sociale. Qual è l’importanza di questo progetto?

M. D. M.: - I due giorni dedicati al teatro sociale, nascono dalle esperienze di Giuliano Scabia. Fin dal lavoro di Marco Cavallo a Trieste (1973), Scabia ha raccontato il disagio di persone recluse nelle strutture psichiatriche, al fianco di un medico-psichiatra straordinario come Franco Basaglia. Con il teatro si è cercato di dare un riscatto sociale ai malati mentali, che hanno recuperato la propria dignità di esseri umani.

In questa occasione si avrà la possibilità da un lato di potere assistere a conferenze sul tema del disagio mentale, dall’altro di seguire proposte performative. Ovvero, cosa e quanto il teatro ha potuto fare in tema di aiuto attraverso la recitazione.


Sfogliando il programma, ci stupisce il fatto che l’offerta, la proposta degli eventi è ben articolata, succosa, variegata, ricca sia dal lato performativo, sia per il numero delle giornate di studio nonostante i tagli subiti dall’Università e i fondi tolti ai Laboratori DMS. Quale strategia il responsabile scientifico della Soffitta ha messo in campo per superare gli immancabili e innumerevoli problemi?

M. D. M. (sorride): - In realtà non ho operato nessuna magia. A tutto questo (e vale anche per gli anni precedenti) si è potuto arrivare grazie al proficuo e intenso lavoro di volontariato dei miei collaboratori e dei docenti disponibili a dare il loro insostituibile contributo quanto a sapere ed esperienza. In particolare, desidero ringraziare Eugenia Casini Ropa, che, rinunciando a spettacoli di danza, ci ha accordato la sua disponibilità per realizzare questa nuova stagione e poi: le istituzioni cittadine, come gli sponsor che da qualche tempo danno un sensibile sostegno economico alle iniziative della Soffitta, cui anche dal mondo del teatro professionistico e di ricerca si guarda con grande interesse. La crisi finanziaria che ha colpito l’economia su vasta scala è evidente, e sarebbe colpevole fare finta che non esista o che riguardi altri settori. Il mio augurio è che questo momento difficile possa durare il meno possibile e, francamente, mi sento di poter dire che in ogni caso La Soffitta sopravvivrà a tutte le crisi e i momenti difficili della vita del nostro Paese. Credo che la questione più importante da gestire, per il futuro, quella che presenta maggiori difficoltà, non sia certo quella dei contenuti, quelli ci saranno sempre, naturalmente, ma quella del dove collocarli per farli nascere e mostrali a un pubblico sempre più interessato. E in questo senso forse mi sento un po’ meno ottimista per quanto riguarda proprio il contenitore, dove attualmente lavoriamo, a causa dei suoi costi.


Irene Cinti, Sandro Ghisi