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Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

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DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

martedì 17 marzo 2009

UN VASO COMUNICANTE TRA L'INTIMO E L'UNIVERSALE

INCONTRO CON CESAR BRIE

Per questo seminario coordinato da Cristina Valenti, il titolo scelto è lungo e articolato: Il teatro, il presente, la forma, la persona, l’io e il noi, l’attore. Sembra un possibile schema vuoto per uno spettacolo del gruppo che Brie ha fondato, il Teatro de los Andes: magari proprio per Odissea, che ha da poco debuttato in teatro. Il regista argentino dichiara di voler seguire per le sue riflessioni una sentenza scorretta ma utile: non si fa teatro senza fare autobiografia.
I suoi genitori recitavano: ruoli comici il padre, più drammatica la madre. L’unico dei loro figli a non recitare era proprio César: per timidezza. Preferiva scrivere; ma scrivere non aiuta sempre a rimorchiare: da qui la svolta verso il teatro. Fuggendo la violenza dell’America Latina, inizia il suo esilio in Italia, dove collabora ai primi centri sociali e impara, attraverso spettacoli che oggi giudica negativamente, la differenza tra chi è commediante (vuole piacere) e chi è attore (vuole inquietare). Anche il mimo, inteso come tentativo di descrivere il noto, gli appare insufficiente: la vera arte rivela il reale che è nascosto.
Più volte viene in contatto con la realtà psichiatrica: non solo nei suoi testi, ma anche portando spettacoli nei manicomi (collabora con Danio Manfredini) e condividendo con pazienti il percorso teatrale e personale. In uno spettacolo nell’ospedale psichiatrico di Ferrara costringe medici e infermieri a lasciare i pazienti liberi di esprimersi anche nelle prime file, perché sono gli attori gli estranei, gli invasori di quell’ambiente. Affronta in scena l’esperienza dell’elettroshock; il risultato lo considera ancora oggi emblematico della sua arte a quell'epoca: nella corsa incessante e violenta tra due letti verticali, l’attore non sa come usare il corpo e lo sbatte contro il muro. Doveva ancora capire cosa farci, con il corpo.
Una possibile risposta è A rincorrere il sole, nato nel ’78 in seguito all’aumento dei suicidi tra i coetanei e gli amici, proprio nel bel mezzo del grande entusiasmo dei movimenti giovanili. È uno spettacolo molto forte. L’interprete intona un selvaggio solfeggio con un flauto infilato nel culo, ruota e smania fino alla prostrazione; finisce morendo, truccandosi e lasciando il pubblico incapace di applaudire. Tutti piangono e vanno ad abbracciarlo; gli dicono: “ti abbiamo creduto”. Questo spettacolo ha salvato la vita al suo autore esorcizzandone il suicidio. È risultato centrale il lavoro sulle azioni fisiche: un uomo che è in esilio non può fermarsi per dire come si sente, altrimenti crolla nella disperazione. Può solo raccontare quello che fa. Ma dopo A rincorrere il sole, dopo aver capito che il teatro è come la vita, Brie capisce di dover continuare a fare teatro preservando questa coscienza, questa nudità. Gli vengono in aiuto le tecniche: servono a perfezionare la sincerità originaria. Rischiano di diventare un’armatura: nascondono e appesantiscono l’attore che non sa più come toglierle. Vanno messe dietro: solo così sollevano.
Un grande aiuto lo riceve dall’Odin Teatret e da Iben Nagel Rasmussen, maestra e sposa. Confrontando i rispettivi training, la donna colpisce César per una sorta di danza con le idee, evocatrice. Lui, dopo essersi sforzato per due ore di esibire le numerose tecniche assimilate in modo confuso e vorace nel suo apprendistato giovanile, si sente rimproverare: conosce molte parole, ma non sa costruire frasi. Iben lo aiuta soprattutto nella composizione.
Ispirarsi ad altri artisti non è una colpa, anzi. Se di un attore ci interessa qualcosa, occorre imitarlo a lungo, fino allo sfinimento, ma senza mai mostrarlo: occorre dimenticarlo e restare se stessi. Occorre prima di tutto amare ciò che si fa senza innamorarsene: non si deve difendere il proprio errore, ma mantenersi critici verso se stessi. Bisogna poi educare anche l’anima, non solo il corpo e la voce: meglio un attore inesperto ma trasparente che l’artista esperto nascosto sotto la corazza delle tecniche. L’ attore è una domanda empirica: come faccio questa cosa con questo corpo? Tenta di dire “io esisto” attraverso un personaggio o una storia per dire “voi esistete”.
Attraverso la messa in scena dell’Iliade alcuni anni fa, Brie si era proposto di segnalare al pubblico i ritorni e le metamorfosi della violenza, partendo dalla situazione boliviana per allargarsi a quella mondiale. Il secondo poema omerico è un libro molto più complesso: la vicenda di questo eroe moderno si snoda tra luoghi ed età diverse. Il nucleo dello spettacolo è stato il tema della migrazione. In Bolivia, il numero degli esuli è impressionante; basti pensare che la principale voce dell’economia nazionale sono le rimesse, gli invii di denaro da parte di cittadini boliviani residenti all’estero: spesso espulsi o partiti per ragioni economiche, spediscono più soldi che non i cosiddetti “paesi investitori”.
I mostri che minacciano Ulisse e i suoi compagni diventano i pericoli che i fuggiaschi incontrano nel loro viaggio verso l’America: Cariddi è il Golfo del Guatemala, dove affondano parecchie imbarcazioni. Nello spettacolo sono in scena anche i mercenari che abbandonano i profughi nel deserto, o i volontari americani che vegliano sulla frontiera, un vero e proprio muro impenetrabile. Ma il teatro politico deve anche essere efficace. Alcune di queste scene verranno probabilmente tagliate nelle prossime versioni dello spettacolo: mentre in Bolivia avrebbero interpellato direttamente il cuore e il vissuto di tante persone, il pubblico italiano ha reagito molto tiepidamente.
Una prima fase del lavoro sulla riduzione del testo, svolta con attori poi esclusi dalla messa in scena finale, si concentrava sul tema: l’Odissea e noi. Veniva chiesto a ognuno di lavorare su personaggi ed episodi del poema, calandoli nel proprio vissuto: quando siamo stati Penelope? Quando Calypso? Chi è il nostro Polifemo? Cos’è per noi il canto delle sirene? Lo spettacolo all’inizio consisteva nel montaggio di queste visioni moderne dell’Odissea. C’è un rapporto tra io e noi, c’è un vaso comunicante tra l’intimo e l’universale. Quando qualcuno racconta qualcosa di sé, quelli che ascoltano devono poter dire anche loro “IO”. Viviamo raccontandoci; la narrazione dilata, ferma e vince il tempo: ci permette di rivedere la nostra vita. Agli artisti non basta raccontarlo a qualche amico: vogliono creare opere. Può succedere, come per Kantor, che l’autobiografia dell’artista diventi universale. Per far questo è centrale il ruolo del coro, inteso non come un insieme di persone che ripetono la stessa cosa, ma come il luogo dove il mio diventa nostro. Un coro di unicità: come nei lavori di Pina Bausch. Non bisogna mai smettere di essere unici. Occorre condividere qualcosa con tutto il pubblico: non portandolo all’immedesimazione, ma al riconoscimento nell’opera di qualcosa che gli appartiene. Così, nell’Odissea, c’è chi dirà: anch’io, come Nausicaa, amo una persona irraggiungibile; come Penelope, anch’io sto aspettando il ritorno di qualcuno.
Un personaggi particolare è quello di Telemaco. Per il regista, la ricerca del padre richiama il suo essere rimasto orfano da giovane, ma anche la recente nascita di una figlia. Il padre era da lui amato e temuto. Quando doveva andare dal medico, la madre lo faceva entrare sempre da un ingresso laterale che permetteva di saltare l’anticamera in sala d’attesa. Il padre, invece, si metteva sempre in fila con gli altri: l’amore è anche etica. La vita non solo ci divora, ma ci risarcisce di qualcosa: quando ha visto gli occhi della figlia, César Brie ha creduto di rivedere quelli del padre: “dalla culla mi guardano gli occhi che io ho guardato dalla culla.” Si commuove, in certi momenti, vicinissimo alle lacrime: a volte pieno di una rabbia ancora viva. Il parlare di realtà così intime, dice, fa parte del suo lavoro: il teatro rende sociale l’intimità. Questo dovrebbe aiutarci anche a non fissarci su una singola condizione nella quale si trova un uomo, ma a vederne gli aspetti nascosti: una persona è molto più ampia di una condizione. Così, raccontare una storia diventa testimoniare la verità della persona, la propria o quella di un altro. “Testimoniare: ecco la mia Bibbia!”

Stefano Serri

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