CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

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DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

martedì 10 marzo 2009

IL MIO SEGNO PER UN CAVALLO

LA LUCE DI DENTRO. VIVA FRANCO BASAGLIA - Giuliano Scabia

Se si scrive un’acclamazione, come nel titolo dello spettacolo di Giuliano Scabia, si usa spesso l’intera parola: Viva. Quando la si scribacchia sui muri, magari cantandola, c’è un segno più semplice: W. Sembra irrispettoso affiancare questa letterina, sola ma vitale, a problemi gravi come l’attuale condizione della psichiatria in Italia, che a molti appare minacciata da restaurazioni o degenerazioni. Ma se questa ovazione la riserviamo a un amico che si vuole ricordare, qual è la grafia giusta?
Con questo spettacolo mi preparavo a palpare un documento: non un resoconto
grigio, ma un ricordo azzurro. I nove attori dell’Accademia della Follia, insieme al fondatore Claudio Misculin, hanno debuttato con La luce di dentro nel 2008: in quell’anno Trieste ha ricordato trenta anni di vita della Legge 180 sulla chiusura degli ospedali psichiatrici, ma anche il centenario della costruzione del manicomio di San Giovanni dove Franco Basaglia iniziò la sua riforma. La rappresentazione si preannuncia quindi come il giusto coronamento di una giornata, intitolata Out/fuori, che il centro di promozione teatrale La Soffitta ha dedicato al rapporto tra teatro e follia.
Il nucleo testuale, tratto da Passeggeri a Trieste di Gianni Fenzi, rievoca la rivoluzione sanitaria e culturale vissuta da chi nel 1973 partecipò al laboratorio condotto da Scabia nel manicomio triestino sotto il segno di Marco Cavallo, l’animale adibito al trasporto della biancheria dei reparti e mitizzato come custode dell’umana stoffa dei pazienti. Alla storia si aggiungono poesie, animali, testimonianze, dialetti, le canzoni nate in quell’esperienza teatrale e la felicità dei giochi verbali, vocali e fisici.
Con l’Accademia della Follia abbiamo in scena corpi che conoscono senza intermediari la malattia psichica
e che hanno incontrato il teatro: forse appiglio, forse nuova voce. I benefici, raccontano fuori dalla scena, li stanno vivendo: per qualcuno saltare è una conquista. Misculin, interprete di Basaglia, ne è il capocomico istrionico, un virtuoso di violino che suona in un quartetto d’archi ma che non rinuncia alla sua superiorità tecnica. Operazione coerente quando la partitura lo giustifica, ma che accetta il rischio di stonare e far stonare gli altri.
Gli attori non mascherano il loro limite oggettivo fisico; non l’esibiscono al modo della Raffaello Sanzio come sacro, né lo trasformano in autobiografismo. Ho condiviso il dolore mentale delle vite alienate offerte da Danio Manfredini nei suoi Tre Studi per una crocefissione. Ho seguito Cristina Crippa e Marco Baliani nell’autobiografia di una donna internata suo malgrado, Adalgisa Conti. Tre atti uni
ci di Pinter mi hanno permesso di vedere pazienti psichiatrici recitare, guidati da Nanni Garella: il loro disagio, scritto sul programma di sala, non definiva lo scopo né il loro modo di essere in scena come professionisti.
Scabia come regista crea uno spettacolo acerbo e incerto, ma fresco e festoso; ci conferma che l’esperienza deve proseguire oltre la performance, magari contagiando passeggeri e strade. Anche per lo spettatore lo spettacolo è solo una sosta, un esito parziale di un lavoro ben più lungo su di sé e con sé.
Cosa c’era in scena? Un cubo, piattaforma per un’attrice. Un siparietto. Poco altro, leggii e sedie. E la testa di Marco Cavallo. Se immagino la cartapesta usata nel ’73, appare lucida e anonima. Ai tempi del laboratorio
si scriveva W MARCO CAVALLO: l’animale era stato pensato, creato e desiderato – con il primo segno dell’amore, che è dare il nome – portato tra le strade, non lasciato solo ma corredato di un’amica. Qui torna oggetto di scena, frammento di un tempo troppo “altro” da noi. È più vivo e significativo nel filmato amatoriale dell’epoca, proiettato per pochi momenti, che nel suo concreto emergere dietro il sipario. Chi ha voglia di tornare a sporcarsi le mani con colla e barattoli di azzurro?















Stefano Serri




2 commenti:

  1. un breve commento. non credo nel teatro terapia. o meglio, credo che la terapia non abbia bisogno di essere "rappresentata" in un contesto teatrale. Pago un biglietto per un prodotto artistico, no di certo per assistere all'onestà e alla sincerità di una cura. Ho trovato lo spettacolo di pessità qualità, a partire dall'allestimento scenico per arrivare all'interpretazione delle attrici "normali".. uno sprofondare rapido e doloroso verso il brutto... ma la fonte maggiore del mio disgusto è stato l'applauso sincero del pubblico. un pubblico che ama vedere la terapia, ama vedere il disabile, il malato. Loro confermano la nostra normalità, ecco scattare il meccanismo della pena, proviamo pietà. "per fortuna che io sono nato normale, ma guarda come si impegnano"... no! no, no! questo è inaccettabile. inaccettabile. l'applauso non era rivolto allo spettacolo ma all'impegno dei ragazzi in scena. sono costretta a ripetermi: inaccettabile. Paola

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  2. Anch'io ero molto deluso dalla qualità artistica dello spettacolo; non emerge dalla recensione, perchè credo che vada valorizzato il nucleo (o il margine) di lavoro positivo svolto all'interno di qualsiasi spettacolo. Lo spettacolo, sono d'accordo, non è che un accidente del vero percorso del teatro (Benjamin insegna) ma il problema è che è l'unico accidente che ci mette in contatto: è la sosta di un percorso non solo per l'attore, ma lo è anche per lo sguardo dello spettatore. Ho quindi cercato di "trasformare" quella delusione in momento di revisione del mio sguardo; lavorando a stretto contatto con la malattia, so che anche lo stare in scena semplicemente esposti è già una meraviglia. Credo che lo spettacolo forse dovesse venire dopo altre prove; ho trovato stonato Misculin rispetto ad altri (a proposito:quali erano le attrici normali?) ma nonostante questo ho approfittato dello spettacolo. Sono contento però dello sdegno espresso per un pubblico che applaude: una voce fuori dal coro è sempre meglio che una voce muta.

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