tag:blogger.com,1999:blog-78838739553175304062024-03-14T08:54:38.425-07:00S.O.S. TeatroggggggS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.comBlogger39125tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-27898853973571670032009-12-07T09:03:00.000-08:002009-12-07T09:06:23.538-08:00DALL'OSSESSIONE DEL MANCAMENTO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Incontriamo Maurizio Lupinelli che ci parla del suo ultimo lavoro, </span>L'incontro mancato,<span style="font-style: italic;"> un lavoro sull'</span>Amleto<span style="font-style: italic;"> di Shakespeare nato proprio dall'incontro, appunto, tra gruppi di attori - con disabilità e non - provenienti da realtà diverse: la realtà di </span><strong style="font-style: italic;">Olinda</strong><span style="font-style: italic;"> a Milano e quella di </span><strong style="font-style: italic;">Armunia</strong><span style="font-style: italic;"> a Castiglioncello. </span><br /><span style="font-style: italic;">Quello che emerge, tra le righe del racconto, è una certa 'fatica' oltre che passione. Fatica nel cercare di spiegare, a chi non l'ha vissuta, un'esperienza troppo importante e profonda per essere tradotta in parole. Le sceglie con cura, le parole, con la delicatezza di chi tiene in mano qualcosa di prezioso.</span><br /><br /><strong>Da dove nasce la scelta di fare teatro con attori disabili? </strong><br /><strong> </strong>«Per rispondere a questa domanda devo partire da molto indietro. Sono cresciuto a Ravenna, nell'unico quartiere popolare della città. Ho iniziato a lavorare da solo senza sapere cosa fosse il teatro perché avevo capito che l'unico modo espressivo per rapportarmi alla società era il linguaggio del teatro, anche se non sapevo cosa volesse dire perché non ho fatto nessuna scuola, non ci credevo. Perciò ho iniziato un percorso da autodidatta, agendo in maniera del tutto naturale e spontanea, assecondando l'interesse che da sempre ho per l''alterità'. Il teatro stesso è 'alterità'.<br />Erano gli anni '80. A Ravenna ho avuto un primo contatto con il <strong style="font-weight: normal;">Teatro delle Albe</strong> - compagnia fondata nel'83 - e con Marco Martinelli con cui ho collaborato per sedici annni, a partire dagli anni Novanta. Con lui ho fondato la famosa 'non scuola del teatro'.<br />Proprio in quel momento, parallelamente al mio lavoro d'attore, ho cominciato ad entrare più nello specifico del mio interesse per la diversità, elaborando dei progetti a contatto con alcune realtà di disagio vero e proprio. Ho iniziato in un piccolo centro di disabili con un progetto sul Woyzeck.<br />Poi, a Lerici, ho intrapreso un altro percorso (dal '99) con un gruppo che va avanti tutt'ora. C'è stato un primo laboratorio di lavoro su <em>Madre Coraggio</em> e poi sul <span style="font-style: italic;">Woyzeck</span> fino ad arrivare, tre anni fa, al Marat Sade dove in scena c'erano sessanta ragazzi portatori di handicap.<br />Il mio interesse per le alterità, col tempo, è diventato sempre più forte. Ho continuato in questa direzione, spingendomi sempre più in profondità, portando il limite sulla scena, ma non per usarlo! Non come provocazione! Mi dà fastidio quando si usano le persone: quando si spinge il disagio al limite per metterlo in mostra, per creare uno shock emotivo alla gente 'normale'.<br />Porto il limite alle estreme conseguenze perché è lì, nella tensione che si crea, che mi trovo a mio agio. L'alterità profonda, per me, è 'rischiare un pezzo di vita con loro'. E' una sfida che mi porta a scoprire qualcosa che non so. Il buon teatro è quando scopri mondi nuovi. Molte volte capita di andare a teatro ed annoiarsi perché non si scopre nulla. Lavorare con queste persone significa invece incontrare un mondo che ha una propria forza.<br />Dopo la mia fuoriuscita dalle Albe, nel 2006, ho fondato una nuova compagnia, con l'attrice veneta Elisa Pol. Stiamo portando avanti questo discorso, lavorando in particolare sui testi di Antonio Moresco, che io definisco 'il mio Artaud', per creare spettacoli dove centro dell'attenzione è il corpo dell'attore, ciò che in questo periodo a teatro si vede sempre meno.<br /><br /><strong>Come nasce lo spettacolo di stasera?</strong><br /><strong> </strong>«Lo spettacolo di stasera è nato da un incontro vero, da un lavoro su Amleto iniziato a novembre a Milano e portato avanti parallelamente coi ragazzi di Castiglioncello. Durante questo progetto, per un anno, ho trascorso una settimana al mese a Milano, una settimana al mese a Castiglioncello e poi, alla fine, ho messo insieme i due gruppi: i ragazzi toscani sono andati a Milano, i ragazzi di Milano sono andati in Toscana e abbiamo unito le due esperienze, per approdare a questo lavoro che io chiamo Amleto! con un punto esclamativo perché chiaramente di Amleto c'è ben poco.<br /><br /><strong>Cos'è l''incontro mancato'?</strong><br />Amleto! L'incontro mancato. Il 'mancamento'. Io ho l'ossessione del 'mancamento', che in realtà è l'incontro vero. E' l'incontro tra due figure da cui non sai cosa succederà: può nascere una scintilla come può non succedere nulla. Quel limite per me è fuoco. E' l'inciampo.<br />Amleto è un testo pieno di 'mancamenti', di relazioni mancate, come quella portante tra Amleto e suo padre, ma anche quella tra Polonio e sua figlia che, troppo tardi riconosciuta, viene seppellita. O quella del dialogo distorto tra un medico-paziente e una gallina ragionante nel suo incedere schizofrenico.<br />"Se l'occhio ha una visione spaventosa, il cuore s'arresta e rimane sospeso!" dice la citazione che ho inserito nella presentazione. Questo per me è il più grande 'mancamento'.<br /><br /><strong>In questi giorni, in occasione della rassegna, si è discusso molto sul valore più o meno 'terapeutico' del cosidetto 'teatro sociale' in rapporto al valore artistico degli spettacoli. Qual è la tua presa di posizione?</strong><br /><strong> </strong>Non me ne frega niente della socialità. Io parto dal presupposto che quello che stiamo facendo insieme a questi ragazzi è un'opera. Se poi ci sono dei miglioramenti relazionali, psicofisici e tutto il resto questa è solo una conseguenza secondaria. Ma non è l'obiettivo. Se l'obiettivo è fare un atto creativo allora questo implica un rapporto crudo e onesto, che genera arte ma anche relazione, ed è un pezzo di vita. La pratica teatrale non è terapia: è vita!<br />La vita che loro hanno fuori purtroppo molte volte non è vita. E' un'esistenza 'impacchettata', dai centri che gli offrono delle 'attività da passatempo' che servono solo a tenerli buoni.<br /><br /><strong>Ricordo una frase di Jean Cocteau in cui egli diceva che il teatro nasce da una mancanza, da un vuoto. Credi che questo abbia qualcosa a che fare col rapporto, in teatro, tra arte e handicap? </strong><br /><strong> </strong>Io dico di si. Mi ricordo una frase di mio nonno, quando era un contadino. Una frase che, in teatro, avrebbe potuto dire Peter Book. Lui, durante le pause dal lavoro, si sedeva sotto il filare della vigna e se ne stava lì, per un'ora, col suo tozzo di pane, a guardare. Io, che ero un bambino, gli chiedevo perché se ne stava lì a fissare il vuoto e lui rispondeva che voleva guardare, voleva riempirsi gli occhi.<br />Siamo noi che abbiamo smesso di vedere l'alterità. Siamo noi che, ormai, abbiamo dato tutto. Molte persone con cui lavoro 'non hanno la testa' ma non importa perché l'arte non è qua (indica la testa) ma è qua (indica la pancia) e qua (il cuore).<br /><br /><strong>Qual'è il tuo 'metodo' di lavoro?</strong><br /><strong> </strong>Non ho un metodo. Non c'è un metodo. Bisogna partire dall'essere. Bisogna saper ascoltare. Ascoltare molto! E ci vuole sensibilità. Bisogna far sentire a questi ragazzi che li tratti per quello che sono, che non li compatisci. Dev'esserci un rapporto libero da questi pregiudizi. Un rapporto di fiducia, per mezzo del quale loro sentono di poter essere finalmente dei soggetti, ai quali il teatro mette a disposizione i mezzi e gli strumenti espressivi per aprire delle possibilità altrove negate. Questo è un lavoro contro l'ipocrisia, contro la commiserazione.<br />La cosa che mi da fastidio è quando si guarda a questi spettacoli come ad uno 'spettacolo di sfigati', con un atteggiamento di pietà. Io dico sempre a questi ragazzi: 'non sarete mai attori ma quello che stiamo facendo ha un valore, stiamo costruendo un'opera'.<br /><br /><strong>Hai lavorato a contatto con diverse realtà, hai avuto a che fare con varie tipologie di disagio. Quale confronto ha costituito per te la sfida più difficile e più stimolante?</strong><br /><strong> </strong>Non c'è n'è uno in particolare. Cambia il nome, cambia che hai delle persone diverse, ma la tensione è sempre la stessa! La direzione è sempre quella! Verso l'alterità. Fa tutto parte di un unico percorso. Anche questo lavoro, quest'opera che presentiamo all'interno della rassegna, non è 'un altro spettacolo' di Maurizio Lupinelli ma il proseguimento logico di un percorso, quello fatto fin'ora. Un percorso che passa da qui, da questo spettacolo, per poi continuare.<br /></div><br /><strong style="font-weight: normal;">Alessandra Ferrari</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-10932506203340284442009-12-07T09:00:00.000-08:002009-12-07T09:02:32.898-08:00LA BELLEZZA DELLO SQUILIBRIO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Abbiamo incontrato il Regista Alessandro Fantechi, direttore e fondatore di Isole Comprese Teatro, compagnia che si caratterizza per il suo lavoro di ricerca e sperimentazione, attraverso un teatro fatto di non-attori che coinvolge categorie sociali emarginate.</span><br /><br /><strong>Come è nata Isole Comprese Teatro? </strong><br /><strong> </strong>«Mi sono formato alla scuola Galante Garrone, pensando di fare l’attore, ho avuto diverse esperienze teatrali, dal teatro di strada al cabaret, sono stato addirittura stato a Zelig. Poi insieme a Elena Turchi, nella periferia fiorentina di Brozzi, abbiamo dato vita a un teatrino che negli anni è diventato un piccolo spazio di sperimentazione, un luogo per accogliere esperienze di carattere sociale, con laboratori che coinvolgevano i giovani della zona. Nel 1998 ho avuto la proposta di un laboratorio per ragazzi tossicodipendenti inseriti in comunità terapeutica. Non conoscevo questa realtà ed è stato un grande impatto, emotivo e formativo, che mi ha spinto al passaggio da attore a regista. Successivamente siamo stati invitati al teatro Metastasio, e in quell’occasione abbiamo dovuto mettere in scena lo spettacolo in modo professionale, cosa che ci ha imposto di costruire una compagnia stabile con i ragazzi del laboratorio.<br />Cercando il nome, un napoletano ci suggerì Isole Comprese proprio per l’idea di comprendere storie isolate, metaforicamente. È nata così la compagnia e l’esigenza fondamentale era di lavorare con non-attori, forse perché per me diventava più facile il lavoro di regista. Avevo trovato nei tossicodipendenti molta disponibilità, ed è la stessa ragione per cui oggi lavoriamo con i ragazzi down, come con il nostro Giovanni Pandolfini che non ha la fidanzata, non ha il telefonino, non ha proposte da altre compagnie ed è quindi sempre disponibile a condividere un progetto, anche se ci sono i lati faticosi della ripetizione, problemi attoriali, o dell’organizzazione del loro tempo che ci dobbiamo assumere come fossimo degli educatori. Non c’è mai stata un’esigenza di tipo sociale o terapeutico, ma solo artistico. In un primo momento quello che accadeva in scena aveva alla base l’idea di una trasformazione, di un percorso in cui persone disagiate incontravano il teatro per la prima volta, questo è un fatto molto interessante perché dà vita a un incontro nuovo, puro, un impatto fortissimo in cui affiorano degli sprazzi di verità, di vita vissuta, che è quello che a me interessa: grande fragilità, ma anche molta verità.<br />Ricordo che una volta c’era da fare la parte di un soldato che doveva ballare, ma un soldato non deve saper ballare e quindi scelsi come interprete un ragazzo che non aveva mai ballato. Vennero fuori delle fratture, delle imperfezioni, che sono quelle che danno il senso della realtà, nello squilibrio c’e questa bellezza».<br /><br /><strong>Quando e come ha incontrato Filippo Staud? Come è nato il legame artistico con Pippo Bosè?</strong><br /><strong> </strong>«Secondo la logica degli incontri, nel laboratorio che il giovedì tengo per i ragazzi del centro diurno di salute mentale Fili e Colori, è arrivato questo strano personaggio che io non conoscevo e che non avevo mai visto, dicendo: Mi chiamo Pippo Bosè, canto Super man e le canzoni di Miguel Bosè, sono famoso, sono un showman professionista con marchio Siae. Questa cosa mi ha incuriosito, quindi ho chiesto, tra le mie conoscenze, se qualcuno sapeva chi era e in molti ne avevano sentito parlare o l’avevano visto esibirsi. Sono andato su internet a cercare informazioni ed ho scoperto che c’erano molte persone che l’avevano incontrato, che lo seguivano, molti che lo stimavano: aveva dei fans e nella famosa Enciclopedia dei Matti era annoverato come il migliore tra questi! Circolavano anche delle leggende metropolitane su di lui, qualcuno sosteneva che prima era “normale” e poi cascando da un’impalcatura aveva perso la ragione.<br />Ripercorrendo così la sua storia, ho trovato un grosso legame con la mia, con gli anni '80 quando anche io facevo l’artista di strada in piazza Signoria a Firenze. Non averlo mai conosciuto risultava come un anello mancante nella mia storia teatrale, mi sentivo debitore nei confronti di questa persona.<br />Ho deciso di verificare le competenze di Pippo facendolo esibire al centro diurno, ma questo rapporto e la voglia di creare qualcosa insieme straripavano dalle attività del centro, che sicuramente non avrebbe potuto contenere un progetto più ampio. Sentivo il bisogno di fare di più, abbiamo così deciso di creare uno spettacolo.<br />Isole Comprese Teatro produce uno spettacolo solo quando succede qualcosa, quando incontriamo una storia che ci fa nascere l’esigenza di raccontarla. Infondo nessuno ci commissiona spettacoli, non abbiamo scadenze di rassegne o produttori. Ci siamo quindi chiesti se Pippo era in grado di memorizzare un testo, se fosse disponibile a lavorare, se poteva spostarsi per una tournèe e abbiamo fissato uno data a Cagliari, nel dicembre 2008, ospitati da un teatro sociale della città. È così che abbiamo iniziato a lavorare su Amleto».<br /><br /><strong><span style="font-style: italic;">Io e Amleto</span>: qual è l’affinità con Shakespeare e quale è la poetica dello spettacolo?</strong><br /><strong> </strong>«Mi son detto: diamogli un titolo riconoscibile, rassicurante, un’opera che la gente vede volentieri. Poi in un certo senso l’Amleto corrisponde anche a Filippo, con la sua situazione familiare che poteva essere amletica. Lui è un Amleto degli anni '80. Isole Comprese aveva già lavorato con questo testo in altre situazioni di disagio, constatando che l’atmosfera dei testi di Shakespeare si adatta perfettamente.<br />Abbiamo cominciato il lavoro sul testo e Pippo ha dato l’input, cioè che l’Amleto non lo voleva fare, non gli interessava, ricordo che mi disse: Amleto mi sta sulle palle, è un libro noiosissimo!<br />Così è venuto fuori un Amleto di vita, più che l’Amleto di Shakespeare. Nei venti minuti di video, che vengono proiettati durante lo spettacolo, Pippo interpreta alcuni personaggi del dramma con un linguaggio goliardico, sboccato, mentre in scena racconta la sua vita che, come dice Macbeth, “è una favola narrata da un idiota, tutto rumore e furia che non significa nulla”, un povero scemo che si agita sul palcoscenico, questo è lui, una vita fatta di niente, che pare epica ma in realtà non lo è, dove non c’è differenza tra felicità e tristezza e gli eventi si assomigliano. È una situazione dubbiosa, che riguarda l’essere.<br />Questo progetto è stato successivamente allargato perché abbiamo girato un documentario che uscirà il prossimo anno, è diventato anche una mostra perché Pippo scrive dei diari che sono pubblicati, ha una scrittura straordinaria, lui scrive sempre, e la traduzione di questi diari potrebbe diventare un’opera letteraria perché rappresentano un mondo eroico visto attraverso la televisione, con gli occhi di George Clooney e dei politici e con tutta la tristezza di una situazione di solitudine che lui sperimenta quotidianamente.<br />Portiamo in scena un’epopea vera, la storia di un personaggio che si è esibito allo stadio, che è andato a cantare a San Remo e che sforna inaspettatamente una professionalità straordinaria acquisita in tanti anni di teatro di strada. Pippo è molto comunicativo, non c’è teatro che tenga, lui quando fa spettacolo aspetta eccitato la fine per poter abbracciare il pubblico, per stabilire un contatto, riportandoci a un teatro popolare adatto a tutti, uno spettacolo divertente e tragico».<br /><br /><strong>Perché l’uso del video nello spettacolo?</strong><br /><strong> </strong>«Perché Pippo buca lo schermo e a me piace molto lavorare sull’immagine e sulla musica. Il video ci dà la possibilità di avere sempre una sicurezza, una fedeltà straordinaria, perché non subisce variazioni. Sta diventando una costante in quasi tutti i nostri lavori perché dà la possibilità alle persone di raccontare la loro verità sotto forma di intervista. In realtà stiamo progettando per i grandi teatri uno spettacolo dove in un primo momento verrà proiettato un documentario di circa cinquanta minuti e poi nella seconda parte metteremo in scena <span style="font-style: italic;">Io e Amleto</span>».<br /><br /><strong>Pippo Bosè – Filippo Staud. Che rapporto hanno tra loro?</strong><br /><strong> </strong>«C’è un rapporto di amore-odio. Filippo Staud, la parte “normale”, sta a letto fino alle cinque, sta con la madre. Poi c’è Pippo Bosè, che è il suo alter ego, un personaggio completamente diverso da Filippo. È un provocatore, un intruso, ma è anche un conformista, gli piace vivere agiato, mangiare bene, gli piace la gente vip, rappresenta un uomo comune, l’italiano medio. Filippo attraverso il suo personaggio ha trovato un modo per fare amicizia, per incontrare la gente, e in questo senso si è salvato dando un senso alla sua vita, sa che è più conveniente essere Pippo Bosè, perché la realtà di Filippo Staud è miserabile».<br /><br /></div> <strong style="font-weight: normal;">Antonio Raciti</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-89598809585837094422009-12-07T08:56:00.000-08:002009-12-07T08:58:43.802-08:00IL TEATRO DELLA PAROLA<span style="font-style: italic;">Abbiamo incontrato la regista Monica Franzoni che, insieme ai suoi attori-detenuti, è "evasa" (solo per qualche ora) dall'Ospedale Psichiatrico Giudiziario per poter mettere in scena </span>Aspettando Godot, L'ergastolo bianco<span style="font-style: italic;">, un intenso dialogo a più voci tra i personaggi di Beckett e i detenuti dell'ospedale, tra l'attesa straziante e la speranza di una libertà che forse non arriverà mai.</span><br /><br /><strong>Come si incontrano, artisticamente, Monica Franzoni e Riccardo Paterlini?<br /></strong>«Da dieci anni porto avanti un progetto nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, un laboratorio in cui lavoro sul corpo. Faccio anche un laboratorio permanente di teatro, ma in quell'occasione il corpo non lo uso. Questa cosa potrebbe risultare curiosa, ma è una scelta frutto di sperimentazioni. Inizialmente avevamo esplorato, come una delle possibili strade, il lavoro corporeo, ma questo scompensava completamente i pazienti. Loro hanno delle grandi difficoltà di comunicazione e di relazione. Il corpo non era il primo strumento da poter utilizzare.<br />Riccardo Paterlini, essendo a conoscenza del mio laboratorio permanente di teatro all'interno dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ha fatto domanda per poter partecipare attraverso un tirocinio della Facoltà di Lettere dell'Università di Parma.»<br /><br /><strong>Come lavora a livello pratico con attori che hanno un duplice disagio: quello della malattia mentale e quello fisico, di carcerati?<br /></strong>«Lavoro molto con la parola, ho constatato che aiuta a contenere le loro emozioni che spesso sono palline vaganti che girano nel loro corpo e nella loro mente. La parola gli permette di interloquire con gli altri. Quindi stimolare la parola e, attraverso questa, stimolare la comunicazione con l'altro, indagare le motivazioni per cui si è in quel luogo, in quel tal giorno, aiuta pian piano a ricostruire delle dinamiche relazionali che un malato mentale, ma soprattutto il malato rinchiuso, non riesce ad affrontare. Noi lavoriamo in una situazione molto particolare perché abbiamo ragazzi che vivono in una cella grande poco più di uno sgabuzzino. Condividono questo spazio molto ristretto, di massimo nove metri quadri, con altre due persone patologiche e quindi gli schemi difensivi sono proprio quelli di rinchiudersi in se stessi, cosa che sarebbe già portata dalla malattia. Hanno commesso un crimine e c'è una sofferenza molto forte dovuta al fatto di trovarsi senza niente, con la consapevolezza di essere stati la causa della propria distruzione. Sofferenza per i figli, rimasti soli, e spesso dati in adozione perdendo ogni diritto su di loro. Gli viene tolto tutto.<br /> Ci sono delle vite straordinarie qua dentro. Persone che la malattia ha divorato pian piano. Sono malattie a volte impercettibili, e senza accorgersene capita di alzarsi una notte e nell'oscurità sterminare la propria famiglia.<br />L'approccio che utilizziamo è proprio quello di costruire un gruppo di auto-aiuto, una specie di famiglia. Il gruppo è composto di persone che si conoscono e che condividono insieme un progetto, persone che nei momenti di difficoltà possano aiutarsi e sostenersi tra loro. La motivazione dominante che li tiene uniti è quella di uscire fuori dalla realtà dell'Opg per raccontare la condizione che vivono quotidianamente, sempre identica.<br />Iniziamo quindi scrivendo il testo tutti insieme, individuando il tema da trattare. Per esempio quest'anno era il sovraffollamento, la condivisone degli spazi, ma soprattutto l'attesa.<br />Abbiamo passato un anno di vuoto completo, dove c'era la gente che si ammucchiava una sopra l'altra e non aveva possibilità di fare niente, per ogni cosa bisognava aspettare e i tempi si prolungavano all'infinito. Per esorcizzare questo problema è servito parlarne molto.<br />La fase successiva è quella un lavoro di integrazione del materiale delle discussioni con un testo noto e la trasformazione in un unico linguaggio. In questo lavoro letterario Riccardo è molto bravo».<br /><br /><strong>È quindi un percorso che si può definire terapeutico? E che competenze ha in merito?<br /></strong>«Si, da quest'anno è stato finalmente riconosciuto come un progetto terapeutico.<br />Io ho sempre fatto teatro e l'ho sempre usato, con i ragazzi difficili, come strumento per fargli comunicare le proprie emozioni. Faccio questo mestiere da trent'anni, vengo da una famiglia d'arte, dalle compagnie guitte dove si faceva tutto. Parallelamente però ho deciso di formarmi come educatrice. Il mio percorso di vita e quello professionale hanno viaggiato sullo stesso binario».<br /><br /><strong>Quali fili legano i personaggi di Beckett ai vostri ragazzi del laboratorio Teatrale dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario?<br /></strong>«Rappresentano il loro modo di vivere, la loro condizione quotidiana. <span style="font-style: italic;">Aspettando Godot</span> ci ha fornito il linguaggio e le dinamiche giuste. L'abbiamo in parte riscritto, in scena vedremo dieci Vladimiro e Estragone, non due. Ci saranno anche Lucky e Pozzo. La loro vicenda è simbolo dell'arrivo del "nuovo giunto", l'ultimo arrivato, quello che viene portato direttamente dal tribunale, caricato su un "cellulare" (che inviterei a visitare in una delle feste della polizia penitenziaria, per farsi un idea). Una gabbia chiusa, completamente buia, dove le persone vengono ammanettate e in uno spazio di un metro per uno e si fanno viaggi che durano anche sei ore. L'opinione pubblica si interessa di tutto, ma su queste questioni non c'è ancora la sensibilità che dovrebbe esserci. Ho voluto far conoscere questo drammatico mezzo di trasporto tramite lo spettacolo, ma devo ammettere che ho cercato di farlo con la maggior leggerezza possibile, non ho voluto sollevare polemiche.<br />Tornando ai personaggi, Didi e Gogo sono gli ospiti dell'Opg che in tre momenti vedremo nei letti di contenzione, che ancora esistono e vengono usati. Ma spesso sono gli ospiti a chiedere di essere legati quando stanno molto male. Il letto è una cosa che sembra incatenarsi a loro. Quando nello spettacolo si racconta di un internato che è rimasto a letto tre anni ci sembra un'assurdità, ma questa storia è vera.<br />Loro stanno sempre a letto. Io ho fatto anche l'esperienza del carcere e la differenza è che lì i detenuti fanno di tutto per uscire, in Opg invece li devi tirare fuori perché fanno di tutto per lasciarsi morire a letto. Questa è la grande differenza».<br /><br /><strong>Cosa le dà il lavoro con queste persone?<br /></strong>«Spesso dico che vado a lavoro per riposarmi. Mi danno indietro una grande energia positiva, un grande onore, un grande rispetto, una grande condivisione delle cose. Io esco con loro e sono tranquilla. Per portare lo spettacolo al festival <span style="font-style: italic;">DiversaMente</span> sono uscita con dieci ricoverati. Solitamente possono uscire solo singolarmente e con un volontario maschio. Non li danno in "custodia" alle donne»!<br /><br /><strong>Come ha fatto a far uscire dieci malati psichiatrici che hanno commesso dei crimini e stanno in un ospedale giudiziario?<br /></strong>«Onestamente non lo so, è una magia. Con loro lavoro molto sulla motivazione, sulla condivisone delle cose, spiego come devono comportarsi. Sono consapevoli che se succede qualcosa quest'avventura finisce, ma c'è una grossa fiducia reciproca. Loro sanno che abbiamo una corresponsabilità.<br />L'istituzione mi conosce bene, mi appoggiano e riesco quindi a permettermi di fare tutto questo, ma ho anche l'appoggio di molti agenti volontari che ci accompagnano. Ci sono anche delle persone straordinarie fra le guardie, molto distanti da quell'immagine di Pozzo che vediamo nello spettacolo. Gente che si è reinventata una professionalità e che lotta contro un'istituzione che tende sempre a spersonalizzare il loro ruolo. Anche all'interno della struttura c'è dinamismo. Ci sono agenti che usano la loro umanità e la loro attenzione per tirarli fuori, per convincerli a combattere contro la malattia e la prigione. Agenti che d'estate cercano di rendergli una parvenza di normalità portandogli le pizze. Ottanta pizze! Ma è sempre una lotta con l'istituzione e il regolamento che ti costringe a stare fisicamente distante, a non mescolarti con i ricoverati. Questo significa per loro non avere nessuno contatto fisico, non vengono toccati, non vengono abbracciati».<br /><br /><strong>Lei ha paura a lavorare a stretto contatto con i detenuti dell'Opg?<br /></strong>«Io insegno loro ginnastica, nella cappella, l'unico spazio disponibile che abbiamo. Mi sdraio con loro, faccio gli esercizi con loro, li tocco, ci scherzo. Credo che ci siano molti pregiudizi e troppe paure. L'Opg è un posto che io amo, e non ho paura. Lì dentro i furbi non ci sono, c'è della gente che soffre perché ha sbagliato facendo anche cose terribili, e c'è anche gente che non ha fatto niente. Gente che ha rotto il finestrino di una macchina e che è solo stata sfortunata».<br /><br /><strong>Progetti per il futuro?<br /></strong>«Ci stiamo già pensando, anche se siamo abbastanza impegnati. In questo momento giriamo scuole e teatri con tre spettacoli differenti. Il nuovo progetto dobbiamo ancora imbastirlo, ma pensavamo a un <span style="font-style: italic;">Pinocchio</span> in una versione tutta nostra, fatto con i pupazzi, o con le marionette.<br />Questo perché un agente, una persona davvero speciale, ha preparato insieme ai ragazzi un presepio che verrà inaugurato l'8 dicembre a Reggio Emilia in piazza Casotti. Si sono scoperte in quest'occasione delle manualità straordinarie. Vorremmo sfruttarle! Cerchiamo sempre di utilizzare e incrementare le risorse che abbiamo. Per esempio c'era un ragazzo che amava cantare, così abbiamo istituito la serata pianobar al sabato sera. Si cerca sempre di ottimizzare le forze che sono presenti all'interno dell'Ospedale, è questo il progetto vero e proprio»!<br /><br /><strong style="font-weight: normal;">Antonio Raciti</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-43891710796209787752009-12-07T08:53:00.000-08:002009-12-07T08:55:04.538-08:00...QUALCOSA DI DIVERSO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Incontriamo Lucia Vasini, regista dello spettacolo </span>Da 'Aspettando Godot'... qualcosa di diverso<span style="font-style: italic;">, frutto del laboratorio teatrale realizzato con gli ospiti e gli operatori dei Centri Diurni e delle Comunità del Dipartimento di Salute Mentale dell' Usl di Piacenza. Il progetto, avviato nel 2004 grazie a Teatro Gioco Vita, è cresciuto con la costituzione di una Compagnia teatrale, denominata "Diurni e notturni". Un progetto che, ci racconta la Vasini, era un suo sogno da sempre, reso possibile dall'amicizia e dal suo rapporto di fiducia con il teatrante e organizzatore di teatro Diego Mai. </span><br /><br /><strong>In che modo l'incontro e il lavoro con gli ospiti dei Centri Diurni e delle Comunità di Riabilitazione ha cambiato la tua idea di teatro?</strong><br /><strong> </strong>«In realtà credo sia avvenuto proprio l'inverso: è stata l'idea di teatro che già avevo e che ho sempre avuto a portarmi a incontrare questa realtà».<br /><br /><strong>Puoi spiegarti meglio?</strong><br />«L'idea è che ognuno ha delle capacità, un talento personale che lo rende diverso da chiunque altro e, in qualche modo, unico. Si tratta solo di individuare questo talento, quello di ognuno, e metterlo in evidenza. Non parlo di talento dal punto di vista tecnico. Io ho fatto l'accademia del Piccolo Teatro e ho studiato il mestiere teatrale in senso 'classico'. Ho incontrato personaggi importanti legati a questa tradizione, come Vittorio Gassman, Massimo Dapporto. Ma nello stesso tempo, ho seguito sempre quello che sentivo e spesso ho imparato osservando proprio quegli attori, meno conosciuti che però, in realtà, hanno fatto la storia del teatro. Uno di loro era Checco Rissone, che lavorava con Strehler e seguiva il metodo della 'recitazione naturale', quello - per intenderci - di Stanislavskij e dell'Actor studio, che negli anni '50 era fortemente innovativo. Io ho sempre saputo che non volevo recitare in modo 'finto', impostando la voce con il diaframma etc.<br />Per questo ho cominciato a lavorare con Paolo Rossi, un attore che 'veniva dalla strada', che non aveva fatto nessuna scuola. Paolo diceva di sentirsi inadeguato per il mestiere dell'attore perché non aveva le basi tecniche. Ma io non ero d'accordo perché credo che la tecnica non stia alla base della recitazione ma che debba venire in un secondo momento, a supporto del talento di una persona, che è una cosa diversa. Il talento è qualcosa che viene prima e ha a che fare, appunto, con quelle potenzialità di cui parlavo all'inizio. Potenzialità dal punto di vista umano. Perché quello che conta è il cuore».<br /><br /><strong>Sarebbe corretto dire, a questo punto, che proprio la tua necessità di fare questo processo a ritroso, di 'regredire' al grado 'zero' della teatralità è ciò che ti ha portato a fare teatro con le persone che hanno dei disagi psichici?</strong><br /><strong> </strong>«Sì. Ho cercato di liberarmi dalla tecnica e mi ci sono voluti tre anni per riuscirci. Paolo Rossi in questo mi ha molto aiutato».<br /><br /><strong>Qual è il vostro metodo di lavoro attoriale?</strong><br />«Il metodo che utilizziamo è quello del canovaccio e delle azioni, legato alla scuola della Commedia dell'Arte e, in qualche modo, al lavoro di ricerca che ho fatto per vent'anni con Paolo Rossi e Giampiero Solari».<br /><br /><strong>In che modo, nel tuo lavoro, la 'follia' aiuta o si lega alla creatività?</strong><br />«Un attore, di norma, lavora sempre nella follia. Lavora nel Sé, che è proprio la sede dell'area creativa. Ci sono attori 'sani' che sono letteralmente impazziti facendo teatro perché lavorare con il Sé è pericoloso. Nell'inconscio, come sappiamo, ci sono sia il bene che il male. Ciò che ci aiuta e ci 'salva', a teatro come nella vita, è la consapevolezza.<br />La cosa che possiamo fare insieme a queste persone è creare consapevolezza. In questo il palcoscenico aiuta: nella vita quotidiana tutti siamo attori ma non abbiamo consapevolezza.<br />Quando si parla di 'magia' nel teatro è proprio questo: non è terapia e nemmeno arte, è consapevolezza. Se consideriamo poi che la distinzione oggi non è più tanto quella tra sani e malati quanto quella, forse, tra malati mascherati e malati dichiarati, viene fuori che, paradossalmente, sono i 'matti' - ovvero quelli che dichiarano un disagio e si curano - coloro che hanno più consapevolezza». <br /><br /><strong>Ti viene in mente un aneddoto, riferito a questo concetto?</strong><br /><strong> </strong>«C'è un nostro attore, Marco, che all'inizio, per due o tre anni, non parlava; e quando lo faceva diceva delle cose illogiche a cui io, inizialmente, non ero preparata. Successivamente, quando è salito sul palco, ho capito che lui era consapevole di avere dei pensieri illogici e se e vergognava. Per questo motivo preferiva non parlare. La svolta decisiva è stata quando, lavorando sull'improvvisazione, si è sentito libero di dire tutto quello che voleva. E' stato allora che il ghiaccio si è rotto. Nello spettacolo di questa rassegna, non a caso, lui interpreta Samuel Beckett, l'autore del testo, che resta presente in scena ed interviene, a sua discrezione, per rivolgersi agli attori. E' perfetto. In questa situazione lui è perfetto. Ed è questo il nostro lavoro: valorizzare le possibilità e le doti di ognuno in modo che siano gli attori, donando i propri pregi e i difetti al personaggio che interpretano, a conferirgli personalità e autenticità. Il più delle volte sono loro ad avere l'intuizione giusta, a prendere la giusta direzione e noi non dobbiamo fare niente. E' un dono quello che ci fanno».<br /><br /><strong>Perché avete scelto <span style="font-style: italic;">Aspettando Godot</span>?</strong><br />«Mi è sempre piaciuto Beckett e, in particolare, quando ero a scuola, ricordo che mi sarebbe piaciuto recitare in <span style="font-style: italic;">Aspettando Godot</span>. Ho scoperto inoltre, ma solo in un secondo momento, che Beckett era malato e che proprio grazie al teatro è riuscito a curarsi. Quando poi ho visto l'<span style="font-style: italic;">Aspettando Godot</span> di Iannacci e Gaber, dove Paolo Rossi interpretava Lucky, ricordo di aver notato che una cosa sola non funzionava: le pause. E allora ho pensato che proprio i 'matti' avrebbero potuto lavorare bene sulle pause, perché hanno il pensiero continuo, come dovrebbe averlo un attore. E allora, rifacendomi al discorso delle qualità di prima, ho ritenuto che questa scelta fosse per loro valorizzante».<br /></div><br /><strong style="font-weight: normal;">Alessandra Ferrari</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-78341080268408928882009-12-07T08:47:00.000-08:002009-12-07T08:49:58.598-08:00LA FOLLIA CREATRICE<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Abbiamo incontrato Andreina Garella, regista di </span>Tempo di smetterla<span style="font-style: italic;">, uno spettacolo nato dalla collaborazione tra </span><strong style="font-style: italic;">Festina Lente Teatro</strong><span style="font-style: italic;"> (compagnia indipendente fondata nel 1997 dalla stessa Garella e da Mario Fontanini) e l'AUSL Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia, con cui dal 2003 la regista porta avanti un progetto di laboratorio teatrale rivolto agli ospiti e agli operatori dei centri e da cui nasce </span><strong style="font-style: italic;">Stazioni di Confine</strong><span style="font-style: italic;">, gruppo stabile aperto fatto da attori fuori dagli schemi che collaborano con Andreina Garella nella produzione di spettacoli. </span><br /><span style="font-style: italic;">La avviciniamo il giorno dello spettacolo, poco prima delle prove, mentre con i suoi collaboratori sta allestendo lo spazio. </span><br /><br /><strong>Come ti sei avvicinata a questo tipo di teatro, perché l'hai scelto?</strong><br /><strong> </strong>«Ho cominciato a fare teatro negli anni '70, a Trieste, dove sono nata, e dove Basaglia ha realizzato la più grande rivoluzione dei nostri tempi, aprendo le porte dei manicomi. L'ospedale psichiatrico di Trieste è stato aperto alla cittadinanza: uno spazio molto bello situato sopra una collina, a San Giovanni, con tanti padiglioni e persino un Teatro; un teatro vero e proprio all'interno dello stesso manicomio.<br />Il direttore dell'ospedale psichiatrico del'epoca, che succedette a Basaglia, aveva messo a disposizione degli spazi, assolutamente gratuiti, ad alcune realtà cittadine di vario genere, culturali e non, tra cui appunto noi, che eravamo una giovane compagnia teatrale.<br />Così abbiamo iniziato a lavorare in questo spazio: uno spazio bellissimo, con il parquet per terra, le vetrate enormi. L'unico vincolo che avevamo era quello di lasciare le porte aperte perché chiunque fosse libero di entrare. Nell'ex ospedale psichiatrico vivevano ancora degli utenti per così dire 'cronici', che erano stati rinchiusi per cinquant'anni, avevano subito lobotomia o erano senza famiglia. Queste persone, che potevano entrare ed uscire quando volevano, venivano ad assistere alle nostre prove e così, a poco a poco, si è creata una sorta di relazione. Una relazione continua che ha permesso una progressiva conoscenza.<br />Da quel momento in poi tutto è successo in maniera naturale. Ho lasciato Trieste per lavorare con altre compagnie di teatro. A Parma, dove per una serie di casualità mi sono trasferita, mi si è ripresentata la possibilità di lavorare a contatto con la psichiatria. Mi hanno proposto di portare avanti un progetto con il Dipartimento di Salute Mentale di Parma e poi, un paio di anni dopo, è nato quest'altro progetto con il Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia che dura ormai da sei sette anni. Potrei dire che in realtà la mia non è stata una scelta ma quasi un percorso obbligato, un naturale progressivo incontro con questa realtà» .<br /><br /><strong>In che modo il 'prodotto spettacolare' vero e proprio di queste esperienze teatrali s'inserisce nel contesto teatrale contemporaneo, in rapporto al 'teatro professionale'?</strong><br />«Da un punto di vista professionale economico ci sono sicuramente delle difficoltà e delle conquiste da fare, ma sotto il profilo artistico la nostra compagnia ha una sua identità precisa, conquistata in tanti anni di lavoro insieme, frutto di un percorso durante il quale abbiamo maturato una nostra poetica, un nostro modo di stare in scena, di comunicare. <span style="font-style: italic;">Tempo di smetterla</span>, come gli altri spettacoli, non è il frutto di un'esperienza sporadica come può esserla un laboratorio: il nostro è un gruppo stabile e aperto, nel senso che alcuni attori sono con noi dall'inizio, da sette anni, mentre altri sono entrati successivamente. Ma c'è una linea di continuità nel nostro percorso, che ci ha permesso e ci permette di crescere insieme».<br /><br /><strong>Quali sono le differenze, le specificità che hai voluto valorizzare e che costituiscono la vostra autonomia artistica? </strong><br /><strong> </strong>«Io lavoro con le persone. Cerco di tirar fuori, di svelare il mistero che ognuno di loro ha. Il mistero che ognuno di noi ha dentro di sé. Lavoro sulla difficoltà. Tento di valorizzare le potenzialità che alcune persone hanno senza averne la consapevolezza, perché spesso sono nascoste dietro alla malattia. Lavoro su quello che la persona mi può offrire.<br />In questo spettacolo parliamo di follia proprio per andare oltre i luoghi comuni, per ribadire il nostro diritto di essere delle persone con delle fragilità e delle debolezze che devono essere non solo rispettate ma anche valorizzate. Esattamente quello che facciamo nel nostro gruppo, cercando di evitare - mi piace sottolinearlo - ogni forma di paternalismo. Non mi interessa sapere le patologie delle persone con cui lavoro. Io mi rapporto con loro umanamente e se ci sono delle difficoltà le rispetto, come loro rispettano le mie. Grazie a questa sorta di rispetto reciproco, presente all'interno del gruppo, anche le persone che inizialmente avevano più difficoltà sono riuscite, durante il percorso, ad andare oltre i propri limiti, a dare più di quello che apparentemente avrebbero potuto dare. E' questa la magia naturale che si crea facendo teatro e che non ha niente a che fare con la terapia psichiatrica» .<br /><br /><strong>Qual è il tuo metodo di lavoro, il punto di partenza per la creazione di uno spettacolo? </strong><br /><strong> </strong>«Non parto mai da un testo già esistente ma da un argomento, un tema che scegliamo di trattare, che abbiamo la necessità di trattare. Intorno a questo argomento poi si forma il progetto poetico.<br />Ogni spettacolo nasce da una necessità, da un bisogno. Solo dopo diversi anni, con Tempo di smetterla, abbiamo sentito la necessità di parlare di follia. Il trentennale della legge Basaglia, in realtà è stato solo uno spunto, un pretesto.<br />Non potrei fare uno spettacolo su commissione, portando in scena un testo dato a priori. Anche in questo caso, infatti, al di là dei riferimenti letterari, da Shakespeare a Zavattini, che ci hanno aiutato e guidato in questo percorso, la maggior parte del testo è nato da noi» .<br /><br /><strong>Come nasce il testo? Che peso ha la componente letteraria nell'insieme dello spettacolo? </strong><br /><strong> </strong>«Ci sono degli spunti drammaturgici legati all'argomento scelto, degli spunti letterari anche. C'è una drammaturga che ci segue e che fissa le parole sulla carta, man mano che nascono durante il percorso. Spesso sono gli stessi attori a fornire questi spunti che poi vengono trasformati in testo teatrale. Anche il corpo è fondamentale, la presenza fisica, il movimento. C'è moltissimo movimento nei miei spettacoli, moltissime immagini. Non c'è una componente che prevale sulle altre. C'è un progetto artistico condiviso che cresce sviluppandosi organicamente» .<br /><br /><strong>In che modo lo spazio influenza la creazione dello spettacolo? </strong><br /><strong> </strong>«Lo spazio condiziona fin dall'inizio la scelta poetica dello spettacolo: prima di tutto, quando lavoro mi immagino uno spazio. E' la prima cosa, sempre. Solo dopo riesco a riempirlo. Per quanto riguarda il luogo fisico della rappresentazione, invece, questa è la prima volta che lavoriamo in un teatro vero e proprio. E lo usiamo vuoto. Precedentemente abbiamo lavorato in luoghi diversi, fuori dal teatro, in corridoi, all'aperto anche. Ci piace lavorare in spazi suggestivi, che entrino a far parte del progetto, della drammaturgia. Lavoriamo sulle ambientazioni più che su scenografie vere e proprie. La scenografia come finzione è in contrasto con la verità dell'essere umano che portiamo in scena» .<br /><br /><strong>Ritieni esista di fatto e sia necessaria la distinzione tra 'teatro professionale' e 'teatro sociale'? </strong><br /><strong> </strong>« Non so se il teatro che faccio sia professionale o meno. Per me è teatro. Non mi interessano le classificazioni, non mi riconosco in tutte queste categorie. Io lavoro con attori non professionisti, persone che hanno dei disturbi. Ma con loro faccio teatro, proprio come lo farei con degli attori professionisti. Non faccio teatro terapia. Il teatro al suo interno ha in qualche modo questa sorta di magia per cui può essere anche terapeutico ma non mi pongo questo problema perché non è un ruolo che mi compete. Io faccio semplicemente teatro. Non saprei come altro definirlo».<br /></div><br /><strong style="font-weight: normal;">Alessandra Ferrari</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-33238342950589555202009-12-07T08:43:00.000-08:002009-12-07T08:46:28.562-08:00LA MATERIA MOLTEPLICE DELL'ESSERE UMANO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Il dirigibile, compagnia composta dai pazienti del Dsm di Forlì, presenta a Bologna il suo ultimo lavoro: </span>Il cortile delle storie sospese<span style="font-style: italic;">. Michele Zizzari, fondatore e regista del gruppo, ci racconta la sua esperienza, cominciata molti anni fa nei quartieri disagiati di Castellammare di Stabia.</span><br /><br /><strong>Qual è la storia della compagnia Il dirigibile?</strong><br /><strong> </strong>«La compagnia è composta dagli utenti del centro diurno di via Romagnoli del Dipartimento di salute mentale di Forlì. Nel 2000 il Dipartimento decise di diversificare le attività e mi contattò per affidarmi un corso di teatro. Abbiamo cominciato con un gruppo di utenti di una quindicina di persone, pazienti affetti da patologie molto gravi. Il teatro ha una funzione magica e i ragazzi si sono appassionati immediatamente al lavoro. Inoltre l'attività fisica - la smobilitazione delle articolazioni, dei blocchi muscolari e nervosi - ha avuto sui pazienti un immediato beneficio. Nel giro di pochi mesi la loro situazione è cambiata e gli stessi operatori hanno notato una trasformazione importante. Dopo il primo anno di lavoro siamo stati in grado di mettere in scena la nostra prima opera, una rivisitazione de <span style="font-style: italic;">Il piccolo principe</span> di Antoine de Saint-Exupéry. Questo spettacolo ha aperto immediatamente delle nuove prospettive. Così abbiamo deciso di continuare: oggi, dopo nove anni di attività, abbiamo otto lavori alle spalle ed è già in cantiere il nono. La seconda opera che abbiamo messo in scena si chiamava Stagioni; in seguito siamo passati al varietà con <span style="font-style: italic;">Non solo cabaret</span>, che ci ha subito aperto nuove strade. Infatti siamo stati invitati a presentarlo al Festival Nazionale delle Arti Espressive di Torino, dove i ragazzi hanno cominciato a capire di essere apprezzati e di avere un pubblico. Poi è stata la volta di Tambourine dream, un musical che trae ispirazione dal desiderio di uno degli attori di lavorare sulle musiche di Bob Dylan. Grazie al teatro i ragazzi hanno capito che i sogni si possono realizzare, che si può meglio convivere con le proprie tensioni interne, con i propri conflitti, e migliorare le relazioni con gli altri. Successivamente con <span style="font-style: italic;">Esperando</span> siamo passati al lavoro su Beckett: ho riscritto per la compagnia <span style="font-style: italic;">Aspettando Godot</span>, moltiplicando i personaggi in scena. È stato interessante scoprire i molti aspetti racchiusi in un essere umano per poter accettare le sfaccettature che sono in ognuno di noi e allo stesso tempo sperimentare aspetti sconosciuti della nostra personalità. Da quel momento in poi le cose sono cambiate profondamente: davanti a me avevo uomini e donne che volevano davvero fare teatro. Avevano scoperto una passione e non si dedicavano più all'attività considerandola come arteterapia o semplice animazione, così ho deciso di approfondire con loro le tecniche recitative. L'anno successivo abbiamo messo in scena un nuovo musical sulla chiusura dei centri sociali, che prevedeva anche un ampio coinvolgimento del pubblico. L'opera successiva, ispirata a Pirandello, segna il nostro inserimento nel progetto regionale <span style="font-style: italic;">MoviMenti </span>che, mettendo in rete queste esperienze, ha il merito di allargare il confronto con la società e con il mondo della cultura, rompendo ogni distinzione settoriale. Lo spettacolo che presentiamo al festival <span style="font-style: italic;">DiversaMente</span> di Bologna, <span style="font-style: italic;">Il cortile delle storie sospese</span>, è ambientato in una corte interna in cui le persone si intrattengono le une con le altre raccontando le loro storie. Ci sono immigrati, donne sole, amanti infelici, poeti e sognatori: è un collage di vicende, uno spaccato sociale in bilico tra desiderio e realtà. Il lavoro che facciamo è un lavoro profondo, di ragionamento e riflessione sul mondo che ci circonda. In questo modo il teatro, oltre a essere uno stimolo fisico e artistico, diventa uno strumento di crescita cognitiva».<br /><br /><strong>Quando ha iniziato a lavorare in contesti di disagio?</strong><br />«Molto presto. Io sono nato nei quartieri disperati di Castellammare di Stabia, città splendida, ma dannata dallo sviluppo urbano dissennato e caotico. Castellammare è la sede di grandi cantieri navali e quindi registra una grande presenza operaia. Io sono cresciuto in una famiglia con otto figli in un quartiere a ridosso del porto; abitavamo in un palazzo fatiscente che era stato un carcere minorile, soprannominato "Il Serraglio". La gente ci indicava come "quelli del Serraglio" e aveva timore di noi. Sono cresciuto in mezzo ai problemi, tra famiglie con genitori detenuti, senza reddito, inevitabilmente esposte alla criminalità. Ho scoperto ben presto una propensione naturale ad aiutare le persone finite sulla cattiva strada; mi sono subito trovato, sin da piccolo, ad essere l'animatore dei gruppi, anche perché ero uno dei pochi a frequentare la scuola, che per me era diventata, anziché una perdita di tempo, un'occasione per raccontare storie e riportare all'interno del quartiere conoscenze e impressioni. Dapprima inconsapevolmente, poi col tempo, ho capito di poter usare questo strumento, non solo per guadagnarmi un certo rispetto, ma anche per aiutare le persone che mi stavano intorno. Altro fattore importantissimo è stato quello legato alla politica, interesse cresciuto col tempo insieme all'impegno sociale nel quartiere e ai primi lavori di sostegno ai disoccupati e ai figli dei detenuti. Da tutto questo nasce la mia passione per il teatro, che parte dalla narrazione e dalla poesia e coniuga il piacere di inventare e raccontare storie con la volontà di risolvere i problemi».<br /><br /><strong>Com'è arrivato poi all'esperienza di Forlì?</strong><br />«Vivo in Romagna da tredici anni. Sono andato via da Napoli abbastanza tardi, soprattutto per l'impossibilità di sfruttare occasioni valide di lavoro ed ottenere adeguate remunerazioni nel campo artistico per portare fino in fondo i miei progetti. Dopo essermi trasferito, ho fatto alcuni anni di esperienze in vari ambiti, fino a quando non è arrivata la proposta per questo esperimento con i ragazzi di Forlì».<br /><br /><strong>Aveva mai lavorato prima con pazienti psichiatrici?</strong><br />«La mia prima esperienza risale al 1977, prima dell'approvazione della legge Basaglia, nel manicomio Leonardo Bianchi di Napoli, dov'ero riuscito a ottenere il permesso di fare animazione in alcuni reparti con pazienti meno gravi. A questa sono seguite numerose altre esperienze, come quella all'istituto Tropeano, per il quale partecipai alla lotta per la riapertura».<br /><br /><strong>La prima volta che incontra i pazienti, come inizia a lavorare?</strong><br />«Prima di tutto mi piace conoscerli. Ovviamente in questo caso occorre vincere tutta una serie di resistenze e di difficoltà comunicative. Da qui, dal racconto delle proprie esperienze, cominciano le prime storie e inevitabilmente nasce il romanzo. Questo mi permette di intervenire direttamente sulla materia, che è quella dell'essere umano: molteplice, difficile, recalcitrante. Dal racconto si passa al percorso fisico del movimento aperto e gioioso. Io credo che solo dopo aver raggiunto una certa libertà e rilassatezza del corpo sia possibile affrontare i temi più profondi. Cerco di creare un clima solare, ludico, in un percorso che va dal respiro alla voce, dal movimento nello spazio alla relazione con gli altri. L'importante è sapere adattare le tecniche - che siano quelle di Stanislavskij o quelle di Boal - alla realtà in cui si vive, mettendoci sempre cuore ed energia».<br /><br /><strong>I suoi attori si occupano anche degli allestimenti scenografici. Quanto conta questo aspetto nel vostro percorso?</strong><br />«Il teatro non è l'unica attività che abbiamo nel centro. Ci sono una falegnameria, laboratori di arti visive, di pittura. Molti di loro lavorano quindi alle scenografie, ma anche al trasporto e all'allestimento. Io credo che il teatro sia una palestra di vita, già nella fase organizzativa di uno spettacolo. Il pubblico vede il personaggio che entra in scena dal momento in cui supera la quinta. Quello che c'è dal camerino alla quinta è invisibile ed è un lavoro enorme: capacità di auto-organizzazione, tempistica, collaborazione, prontezza. Questo diventa un esercizio di vita per tutti, non solo per qualcuno in particolare. Ecco perché un progetto come MoviMenti è importante: far viaggiare queste esperienze mette alla prova gli attori, li costringe ad adattarsi a spazi e pubblici molto diversi, in modo da ampliare la propria gamma di risposte alle esigenze della vita».<br /><br /><strong>Sono cambiati molto i suoi attori in questi nove anni?</strong><br /><strong> </strong>«Moltissimo. Mi ricordo che il primo giorno che li ho incontrate quasi tutti non parlavano, avevano movimenti limitati e sguardi fissi. Gli stessi operatori si sono meravigliati del cambiamento. Questo è un aspetto impagabile del lavoro».<br /><br /><strong>Durante la sua lunga esperienza che reazioni ha potuto osservare nel pubblico che assiste ai suoi spettacoli?</strong><br />«Per quanto riguarda l'atteggiamento diffuso riguardo alle differenze di ogni tipo, il teatro diventa uno strumento per scardinare il pregiudizio. Anche i parenti e gli amici che assistono a questi spettacoli rielaborano completamente il rapporto che hanno con queste persone. Le vedono improvvisamente capaci di coinvolgere ed emozionare un'intera platea: questo sgombra il campo agli equivoci, ponendo l'utente-attore in una posizione completamente differente e rafforzando la sua autostima. Il pubblico scopre qualcosa di magico. Se la prima paura dell'uomo è quella della morte, la seconda è sicuramente quella del confronto. Chi assiste a questi spettacoli scopre che tutti sono capaci di superare questa paura. Questo messaggio vince anche laddove esiste il pregiudizio e ha una ricaduta nella vita concreta. Io penso che l'arte sia un percorso propedeutico a tutti i cambiamenti sociali».<br /></div><br /><strong style="font-weight: normal;">Alessandra Cava</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-87183457224462557732009-12-07T08:39:00.000-08:002009-12-07T08:42:23.734-08:00LE ALLUCINAZIONI CHE FANNO TEATRO<h2 style="text-align: justify;" class="RASotTitCell"> <span style="font-weight: normal; font-style: italic;font-size:100%;" >da una conversazione con il Regista Nanni Garella</span></h2><div style="text-align: justify;"> Abbiamo incontrato Nanni Garella, per caso a Bologna tra una piazza e l'altra della sua tournée con Platonov (produzione dell'Arena del Sole in collaborazione con Ert).<br />Non vuole parlare di sé il regista. Il tempo che può dedicarci vuole spenderlo per informarci sulla miracolosa avventura di Arte e Salute, una compagnia stabile di attori, formata dagli ospiti del Dipartimento di Salute Mentale Ausl di Bologna, che lui dirige.<br />Ci racconta di quando trent'anni fa, con alcuni amici psichiatri, tra cui Filippo Renda e Ivonne Donegani, fantasticavano sulla possibilità di creare una compagnia stabile formata da ragazzi con disagio mentale. All'epoca non avevano le possibilità, né i mezzi, per realizzare il loro sogno.<br />Vent'anni dopo, nel 1999, si rincontrano. Sono diventati dei professionisti affermati e riconosciuti, e forse adesso potranno permettersi di dare vita a quel progetto.<br /><br />Decidono di iniziare, quello stesso anno, un corso di formazione con lo scopo di creare una compagnia teatrale composta da pazienti psichiatrici: "L'idea originale era di evitare di fare teatro terapia, percorsi interessanti ma che rimangono all'interno di una cura".<br />Il loro obiettivo era quello di dare a queste persone degli strumenti tecnici, validi per poter lavorare come professionisti. Ci sono riusciti. Questi attori ormai da sette anni vengono scritturati per mettere in scena degli spettacoli. Proseguono anche un lavoro di formazione permanente nel quale sono stati inseriti, negli anni, anche altri pazienti. Il nucleo primario tuttavia è rimasto sempre lo stesso, un segno evidente che le attività svolte da Nanni, e dai suoi collaboratori, hanno funzionato bene. "I nostri ragazzi, che vanno dai 25 ai 50 anni, hanno raggiunto una grande maturità, prima che artistica, umana. Si sono riappropriati di un pezzo di vita che gli era stato strappato. Hanno potuto continuare il percorso interrotto con l'inizio della loro malattia che solitamente si presenta nell'adolescenza, quando si arrestano percorsi di studio, rapporti d'amore, rapporti familiari. A loro non fa bene fare il teatro, gli serve solo avere un impiego che significhi responsabilità, guadagnare dei soldi, potersi affrancare quindi dalla dipendenza da famiglie o da sussidi pubblici. Riescono così a vedere la loro vita con altri occhi, hanno delle prospettive, ora".<br /><br />Questo risultato è dato dal fatto che applicano alla lettere il principio secondo il quale i malati di mente, i pazienti psichiatrici, sono uomini e donne disagiati che possono riuscire a convivere con la propria sofferenza, come chi ha un'altra patologia, come un diabetico: "Vivono compatibilmente con la loro malattia. Basaglia ha toccato un elemento fondamentale per far sì che questo processo avvenga, cioè il lavoro. Il teatro semplicemente facilita questo processo perché ci sono gli applausi, i riconoscimenti, il successo, il calore del pubblico".<br /><br />Con i suoi attori Nanni si rapporta come con qualsiasi altro professionista, l'unica differenza metodologica sta nel maggior tempo che spende per il lavoro di drammaturgia. Cerca di far rivivere la nascita del testo, le ragioni, lo studio dei personaggi, per consentire un aggressione e una memorizzazione più spontanea. Arte e Salute è una compagnia che oggi riesce a produrre uno spettacolo nell'arco di due mesi, come qualsiasi altro gruppo.<br />"Gli attori hanno una grande capacità di immedesimarsi nel personaggio, dovuta dal fatto che sono abituati, a causa del loro disturbo e della psicoterapia, a scavarsi dentro in profondità. Una scoperta dei testi, delle drammaturgie, dei personaggi, che avviene quasi sempre attraverso quella strana conoscenza che è il processo allucinatorio, tipico delle loro patologie. Usare queste allucinazioni per avere delle intuizioni. Anche Pirandello soffriva di allucinazioni ed è risaputo che attraverso le allucinazioni sono nate opere d'arte di grosso rilievo in tutte le parti del mondo. Una delle forme specifiche della conoscenza della realtà attraverso l'arte è proprio un processo allucinatorio".<br />In primavera presenteranno, sul palcoscenico dell'Arena del Sole di Bologna, tre atti unici di Pinter: Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna e Party time. Sono quelli più duri, più politici, più forti. Aprono le porte di un mondo di violenza, di reclusione, di sopraffazione, di dittature. Secondo il regista, gli attori di Arte e Salute riusciranno perfettamente ad inscenare Pinter: "Perché loro, quando si tratta di dare spessore di realtà a delle situazioni, sono impareggiabili. Diventano pasoliniani quando fanno Pasolini, pirandelliani quando fanno Pirandello, Shakespeariani quando fanno Shakespeare...".<br /><br />Prima di lasciarlo ai suoi impegni, gli chiediamo di raccontarci un episodio, un aneddoto, che possa riassumere i dieci anni di attività con la compagnia:<br />"Quando abbiamo lavorato per mettere in scena Vita di Galileo di Brecht, bisognava anche far capire ai ragazzi quali erano state le scoperte di Galileo, su cosa lavorava. È facile dire che la terra gira intorno al sole, o parlare dell'universo così, tanto per parlare. Queste cose molte persone le ignorano, non è che non le capiscono. Mirko, che è il più piccolino dei nostri attori (è arrivato che era un ragazzino), faceva la parte di Andrea Sarti, l'allievo di Galileo. Una sera mi chiese: Nanni scusa, ma la terra gira intorno al sole ancora oggi? Ho capito in quel momento che se riuscivo a spiegare a Mirko che la terra sì, gira intorno al sole, l'avrebbe capito anche il pubblico. Questo lo dico perché, a parte la frase divertente che può uscire solo dalla bocca di Mirko, è attraverso il loro sguardo e le loro domande che alle volte ripenso alla natura del teatro, dei personaggi, alla sostanza dei testi, a quello che dicono. Troppo spesso facciamo le cose meccanicamente, senza capirne il senso. Invece le persone che hanno delle forti difficoltà, dei malesseri di fondo, anche le persone fisicamente disabili, ragionano in un altro modo perché fanno più fatica, ma nel fare più fatica si pongono delle domande che noi non ci poniamo, portandoci quindi a fare delle digressioni, andando in strade sconosciute che vanno fuori dalla nostra quotidianità, boschi e foreste lontane dove loro scoprono delle cose che poi spesso ci raccontano. Noi il più delle volte non ci crediamo, ma loro le vivono davvero. In realtà il loro sguardo è un sguardo interrogativo, assolutamente ingenuo, però molto penetrante sugli oggetti della realtà. Per l'arte questo è importantissimo perché significa focalizzare i punti su cui bisogna lavorare, le cose che bisogna far venire fuori. Insomma badare alla sostanza e poche chiacchiere!".<br /></div><br /><strong style="font-weight: normal;">Antonio Raciti</strong>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-27135488730072093312009-12-07T08:30:00.000-08:002009-12-07T08:31:40.427-08:00"OGNI TROVATA E' PERSA": L'INCONTRO IMPOSSIBILE DI PIPPO BOSE'<div style="text-align: justify;">Un uomo sorridente, ci è sembrato arrivasse da lontano. Con una piccola valigia è sceso per le scale dell'ingresso alla sala come fossero quelle di un aeroplano che l'avesse portato lì, giusto in tempo per l'inizio dello spettacolo. Ma a quel punto sapevamo già tutti chi fosse. L'avevamo appena incontrato: prima come immagine nella foto proiettata sulla scena, un viso di bambino tra i bambini, in una classe elementare di quasi cinquant'anni fa; poi attraverso la voce di chi lo ha conosciuto, nelle video-interviste girate a Firenze, dove quasi l'intera città continua a collezionare ricordi delle sue improbabili esibizioni improvvisate per strada. Filippo Staud, in arte Pippo Bosè, definito da se stesso «showman professionista qualificato», quando è apparso tutto intero davanti a noi, nel salutare il pubblico agitando la mano sopra un sorriso dolcissimo, non sembrava più reale. O meglio, troppo vero per essere vero. Se tutti abbiamo una storia e se la nostra storia fa di noi quello che siamo, Pippo Bosè è la sua storia e nel momento esatto in cui coincide con essa, si dissolve. «Ogni trovata è persa», per dirla con Carmelo Bene - grande sottrattore di Amleti - per questo Amleto che si frantuma nell'impatto frontale con l'io del titolo. <em>Io e Amleto</em> o dell'incontro impossibile: Pippo è Amleto, lo è diventato perché l'ha masticato, ingoiato e digerito, restituendocelo a pezzetti tra singhiozzi, lustrini e canzonette. Non a caso l'unico personaggio di cui non veste i panni è proprio quello del principe di Danimarca: nei video che catapultano in scena i travestimenti di Pippo, appaiono deliziosi e volgari Claudio, Gertrude, Ofelia e persino un clownesco Yorick, il cui teschio campeggia però in un angolo della scena, accanto alla quinta da cui Pippo entra ed esce durante lo spettacolo. Così come la sua immagine e la sua voce, le storie vanno in pezzi e si moltiplicano: Staud si confonde con Bosè, Bosè con Amleto, Amleto con la Storia. Mentre Pippo snocciola l'ipnotica cronologia della sua esistenza fuori dall'ordinario, il dee-jay in scena - regista a vista che incolla i frantumi delle trame - ne accompagna il rosario con i successi musicali dell'epoca. «Tutto è bene quel che non finisce mai» asserisce Pippo deformando Shakespeare. Eppure, anche questo spettacolo si esaurisce. Lo showman si congeda con uno struggente baciamano e ci lascia soli, come ogni volta, all'uscita del teatro.<br /><br />Alessandra Cava<br /></div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-31847434137699545362009-12-06T14:46:00.000-08:002009-12-06T14:48:17.258-08:00ASPETTANDO GODOT...QUASI QUASI MI DIVERTO<div style="text-align: justify;">Il pubblico ha preso posto e lo spettacolo sta per cominciare. Le luci però ancora non si spengono. Cosa stiamo aspettando? Un signore e una signora arrivano in platea, in ritardo. La moglie rimprovera il marito: "Dove hai messo i biglietti?" e chiede a due persone del pubblico, gentilmente, di cedere loro il posto. Quest'uomo e questa donna, però, non sono due comuni spettatori. Lo sketch fa parte dello spettacolo, che inizia così: facendosi attendere.<br />Un breve filmato, quasi un 'backstage', ci mostra una serie di eventi avvenuti prima dello spettacolo: uno degli attori, che interpreterà Estragone, tarda a raggiungere il teatro e l'altro, nell'attesa, scatta inutili fotografie, giusto per passare il tempo. Nel frattempo, in un camerino, Radio Shock sta intervistando l'autore del testo, Samuel Beckett, il quale rilascia brevi risposte e dichiarazioni senza senso, con l'aria criptica e misteriosa di una rock star prima del concerto. Durante tutto lo spettacolo, l'autore resterà in scena, onnipresente, come un'ombra silenziosa, ad osservare in silenzio le gag di Didi e Gogo; intervenendo di tanto in tanto per dire la sua o per offrire da bere ai due personaggi.<br /><span style="font-style: italic;">Aspettando Godot</span>, opera emblema del teatro dell'assurdo, si trasforma, come dichiarato nel titolo, in qualcosa di diverso. Le dimensioni del tempo e dell'attesa non hanno più quel valore di staticità e di vertigine del vuoto dell'originale beckettiano. La frantumazione del testo, provocata sia dagli inserti comici che dall'intrusione di personaggi provenienti da altre opere, come Winnie, la protagonista di <span style="font-style: italic;">Giorni Felici</span>, dissimula la tensione dell'attesa. La vicenda e i dialoghi su piani sfalsati di Vladimiro ed Estragone diventano un canovaccio, un pretesto per l'improvvisazione; uno spazio e un tempo contenitori in cui esibire una padronanza della tecnica attoriale meritevole di complimenti.<br />Vladimiro ed Estragone diventano così definitivamente e dichiaratamente Didì e Gogò, la coppia farsesca che in Beckett rimaneva solo implicita, come la faccia opposta di una stessa medaglia. Resta da chiedersi se la perdita di una delle due facce non porti con sé il rischio di un appiattimento dei personaggi - e dei contenuti - verso una bidimensionalità sicuramente non voluta. Il rischio, tuttavia, è subito riscattato dal valore aggiunto agli stessi personaggi che, a differenza delle scarpe di Gogo, calzano a pennello sugli attori che l'interpretano, sposandone le caratteristiche naturali e conferendo note di originalità e di spontaneità all'interpretazione.<br /><br /></div>Alessandra FerrariS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-57861291488541058382009-12-06T14:37:00.000-08:002009-12-06T14:44:27.999-08:00LE VITE INTERROTTE<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;font-family:arial;" >Visita guidata tra le mura dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario</span><br /><br /><span style="font-family:arial;">C'è un auto della polizia, stasera, davanti al teatro. È ferma. Il motore è spento. Gli agenti parcheggiati nei sedili. Aspettano. In sala, il Laboratorio Teatrale dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, presenta <span style="font-style: italic;">Aspettando Godot, l'ergastolo bianco</span> con la regia di Monica Franzoni e Riccardo Paterlini.</span><br /><span style="font-family:arial;">Nella scena, illuminata da un piccolo televisore sintonizzato su un canale vuoto, un uomo lucida il pavimento. Si muove un po' avanti. Torna un po' indietro. Sta cantando. È come un juke-box, incantato in loop sulla stesso pezzo. È routine. Scandisce un tempo lento e costante.</span><br /><span style="font-family:arial;">Si accende una luce netta che ora lascia intravedere due letti in posizione verticale. Legati in piedi giacciono un Vladimiro e un Estragone qualunque. Sono due compagni di sventura. In quella gabbia, l'ospedale psichiatrico giudiziario, fasciati da un lenzuolo troppo stretto, non riescono nemmeno a girarsi. La luce si spegne per riaccendersi dall'altra parte del palco, da una cella all'altra. Due compagni, Didi e Gogo, vegetano disincantati davanti a un televisore. È il loro unico svago, la loro evasione virtule. Hanno sentito dire che uno su due si salva. Si consolano, lottano con un piede gonfio in una scarpa dai lacci di carta aspettando tutto il giorno che qualcosa si rompa per poterla riparare. Tanto prima o poi tutto si rompe. Se così non fosse potrebbero distruggersi loro, farla finita. Si consolano, ancora, altri Gogo e altri Didi, tutti nell'attesa di andarsene, di lasciarsi morire. Un attesa straziante, interrotta di rado dall' arrivo di un Pozzo. È la guardia, una di quelle non troppo gentili. Porta con se un Lucky, il "nuovo giunto", stravolto dal viaggio nello scomparto buio di un camioncino (un cellulare), ammanettato impotente in preda alle curve. Non parla. Ha i segni dello strozzamento da corda sul collo. Una ferita aperta. Un tentato suicidio. L'agente suggerisce di tenerlo a distanza, di non toccarlo: é un uomo cattivo!</span><br /><span style="font-family:arial;">"Ma in tutto questo quanto ci sarà di vero"?</span><br /><span style="font-family:arial;">I non-attori dell'O.P.G. vivono in un ambiente stretto e angusto, tre per cella, uno sull'altro. Convivono con una triplice depressione portata dalla malattia mentale, dalla prigionia e dalla colpa di aver commesso un crimine. Sono vite straordinarie che si sono interrotte, in un attimo di follia. Persone private di tutti i diritti, anche quello di essere padri. Il tempo li incatena, non hanno speranze, non hanno sogni. Hanno solo la possibilità di lasciarsi morire nel letto, quell'ergastolo bianco. Da qualche anno grazie al teatro hanno scoperto un'altra via di salvezza. La relazione umana, la socializzazione, la condivisione. Sono ironici ora questi ragazzi e sdrammatizzano la loro atroce condizione senza esitare, decisi e compatti. Sul palcoscenico portano solo parole. Senza musica, senza effetti luce, senza azioni. La loro sala prove è una cappella in cui non c'è niente, nemmeno lo spazio. Recitano leggendo il canovaccio, con naturalezza, come se non fosse più d'uso impararlo a memoria. Un toccante dialogo a più voci tra i pensieri dei carcerati, reso drammaturgia da Paterlini, e il testo di Beckett.</span><br /><span style="font-family:arial;">Alla fine dello spettacolo torniamo per strada, provati ma liberi. Anche l'auto della polizia, acceso il motore, ha ripreso la sua corsa verso nuove avventure.</span><br /><span style="font-family:arial;">Ma i ragazzi dell' O.P.G. stanno ancora sperando, aspettando il loro Godot: quella libertà che forse non arriverà mai.</span><br /></div><br /><span style="font-family:arial;">Antonio Raciti</span>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-19436762440384733672009-11-28T01:38:00.000-08:002009-11-28T01:41:11.678-08:00LAVORI IN CORSO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Il cortile delle storie sospese -</span> Compagnia Il Dirigibile Ausl Forlì, regia di Michele Zizzari<br /><br />Strade interrotte e ponti vacillanti sono spesso il risultato della forzata ricerca di una praticabilità su terreni scoscesi, disconnessi. Il gioco del teatro è straordinario per questo, perché può permettersi di creare connessioni attraversando contrade impervie con il fascino dei suoi meccanismi. Ma si tratta per l'appunto di un incanto, una seduzione, una pozione magica di ingredienti segreti, da preservare gelosamente o svelare con cautela.<br />Stendere la propria biancheria in uno spazio di comunità è una pratica che forse abbiamo perso, è una prova di coraggio e di disponibilità alla condivisione.<br />Nel Cortile delle storie sospese c'è in ballo proprio questo svelarsi, raccontarsi senza la pretesa di tracciare un percorso asfaltato su cui far correre l'attenzione dello spettatore.<br />Così brandelli di vite diversissime si incrociano abbandonandoci all'antico piacere di sentirsi narrare una storia, sorprendendoci per la capacità di prendere respiro e per la forza della spontaneità.<br />Il sospetto di lavori in corso è però molto forte e genera un'entrata e un'uscita da quelle strade troppo rischiosa per farsi inseguire fino alla fine; si riconoscono le direzioni scelte, gli impasti di materia viva e ingredienti ben dosati; si accettano gli ostacoli e si apprezzano le curve improvvise.<br />Ci si ritrova tuttavia pur sempre davanti a quel cartello giallo e nero e non si ritrovano le piume per superarlo, quell'elemento in più che crea l'incantesimo, scolla i piedi e porta via.<br /></div><br />Elisa CucinielloS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-61135277912181585632009-11-28T01:35:00.000-08:002009-11-28T01:37:26.386-08:00DIETRO OGNI SCEMO C'E' UN VILLAGGIO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Collage etico di una comunità psichiatrica messa a soqquadro</span>.<br /><br />Una riunione di condominio, dove tutti si conoscono e nessuno si parla. Un cortile dove affacciano uomini relegati dietro le finestre delle loro abitazioni, dietro vetri colorati da cui sognano avventure. È un'esistenza triste. È la vita di "un matto" che ha un mondo nel cuore ma non riesce ad esprimerlo con le parole. Senza parole e senza espressione.<br />Così, nascosti da una plastica maschera bianca, il regista Michele Zizzari presenta la compagnia Il dirigibile, formata dagli ospiti e dagli operatori del Dipartimento di Salute Mentale di Forlì.<br />Svelato il volto de <span style="font-style: italic;">Il Cortile delle storie sospese</span>, siamo catapultati nell'irrealtà di un disagio mentale vivo ma sedato. Ci caliamo improvvisamente nel ruolo severo di giudici: non riusciamo ad accettare la fragilità e la difficoltà, per tutti, di esserci.<br />Non attori che si fingono "pazzi", ma "pazzi" che si fingono attori. Occhi spenti, sbarrati, smarriti, faticano a posarsi sui volti in platea. Voci labili, rauche, rotte, riescono a stonare la predisposta armonia dell'ascolto. Sono gli occhi e la voce di una moglie senza marito. Gli occhi e la voce di una madre senza figlio. Di un'amante senza amore. Personaggi surreali che vagano nell'assenza di un'essenza scenica, tra luci statiche e musiche stitiche. Un grottesco delirio che racconta una ferita aperta dalla quale, cronici, non riescono a uscire.<br />Solo danzando, per un momento, li scorgiamo attori sicuri e sfrontati ancheggiare quel ritmo ancestrale. O forse, semplici uomini e donne, finalmente liberi di esprimersi come gli pare nel caos della piazza in rivolta dove, con una citazione di De Andrè, "Un matto" non sembra rivolgersi al pubblico, ma al suo regista: <span style="font-style: italic;">E sì, anche tu andresti a cercare le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezz'ora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria, e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto</span>.<br /></div><br />Antonio RacitiS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-62153017056356190372009-11-26T23:56:00.000-08:002009-11-27T00:02:05.311-08:00IL TESTIMONE SCOMODO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Appunti per una critica delle differenze + Ipotesi di sguardo su </span>Rusco<span style="font-style: italic;"> di Gabriele Tesauri e </span>Tempo di smetterla<span style="font-style: italic;"> di Andreina Garella</span><br /></div><br /><div style="text-align: justify;">A teatro la posizione di chi guarda è scomoda per sua natura. Si sta in trepidante attesa di essere investiti dalle azioni, con la grande responsabilità di dover poi investire nelle proprie re-azioni perché diventino segni, tracce, proiezioni. Capita spesso però, per abitudine o per convenienza, di lasciarsi affondare nella propria poltrona, di rilassare la spina dorsale e di mettere in moto l'automatismo dello sguardo. È facile essere tentati dal fare affidamento sugli strumenti critici che si possiedono: già collaudati, ci assicurano un risultato abbastanza rapido, più o meno corretto e sicuramente indolore. Ben vengano allora le occasioni di far saltare il meccanismo e di fare esercizio di visione. Il teatro in psichiatria, così come tutte le esperienze sceniche che vengono raccolte sotto il nome di "teatro delle differenze", è uno di quegli eventi che fanno volare il testimone giù dalla poltrona. Dove potrà sedersi, adesso? La difficoltà sta nello scegliere le angolazioni e le distanze dal quale osservare un fenomeno che si pone come oggetto d'arte e che presenta numerose stratificazioni di sostanza e di senso. Ovviamente non ci si può sedere al posto dello psichiatra o dell'operatore sanitario e soffermarsi solo sull'aspetto terapeutico e di recupero sociale dell'operazione, né trovare rifugio sulla sedia del critico teatrale e dimenticare la specificità di queste opere. Occorre trovare una posizione più scomoda che favorisca l'attenzione; occorre forse restare in piedi, per cercare di vedere un po' più lontano. Vale a dire che il testimone non può occuparsi esclusivamente del valore artistico dell'opera in sé e neppure solo della visibile ricaduta benefica sui pazienti-attori, ma entrambi questi aspetti, strettamente legati, devono interessarlo moltissimo, al fine di costruire gli strumenti necessari perché si possa fare strada - una delle tante possibili - all'interno del lavoro. Basta forse, ogni volta, trovare una questione nuova a cui tentare di dare delle risposte, anche se provvisorie. È quasi impossibile trovare la soluzione definitiva, ma vale la pena tentare di avvicinarla.<br />La prima domanda che arriva assistendo a questi spettacoli è molto semplice e riguarda il lavoro con gli attori. Una grande curiosità attira lo spettatore verso questo mondo doppiamente magico in cui si fondono i misteri del teatro e i misteri della mente, dove accadono cose che riguardano da vicino la realtà, pur sembrando lontanissime dalla vita quotidiana. Questi primi due giorni del Festival <span style="font-style: italic;">MoviMenti</span>, con gli spettacoli di Gabriele Tesauri e Andreina Garella, ci hanno mostrato due possibilità di lavoro profondamente differenti. L'Islandese che si aggira tra fiabeschi cumuli di sacchi della spazzatura in <span style="font-style: italic;">Rusco</span> e la magra figuretta dagli occhi luminosi che stringe al petto un palloncino rosso in <span style="font-style: italic;">Tempo di smetterla</span> ci accompagnano in due diverse direzioni, che solcano le prime due strade di questi teatri della mente. L'esperienza di Tesauri con la Compagnia Arte e Salute si fonda su un lavoro tradizionale d'attore, per uno spettacolo dalla struttura prevalentemente dialogica, spezzato a tratti da monologhi onirici che colorano di fiaba la scena sommersa dai rifiuti e accesa di luci cangianti. Sono questi i momenti di <span style="font-style: italic;">Rusco</span> in cui gli attori trovano il modo migliore di vivere in scena, nonostante l'uso dei testi risulti spesso ridondante e a volte giochi a riscuotere facili consensi. Ci si rende conto di quanto sia importante lasciare che le energie si manifestino nello spazio della scena, di quanto le personalità di questi attori possiedano un alto grado di presenza, tanto più forte ed evidente nelle sequenze sciolte dai vincoli della rappresentazione. Il lavoro di Andreina Garella di Festina Lente Teatro in <span style="font-style: italic;">Tempo di smetterla</span> fa della questione della presenza il suo centro vitale. La concertazione del gruppo, anche se condotta da una struttura abbastanza rigida di scene e controscene, trasforma le sue regole in un potenziale d'espressione senza limiti. È una carrellata di corpi e di voci che prende vita trasformandosi continuamente, un coro di personaggi che si aggrega e si disperde sul palco vuoto, che è il non-luogo che racchiude infiniti spazi. Proprio da qui, forse, da quella presenza capace di colmare il vuoto della scena oltre ogni espediente, il testimone dovrebbe far partire le sue domande, allenare la percezione a coglierne il segno, per essere davvero pronto per il compito che lo attende.<br /></div><br />Alessandra CavaS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-48413939036738171412009-11-26T23:52:00.000-08:002009-11-26T23:55:04.272-08:00TEMPO DI ESSERCI<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Fisarmonica di parole e azioni per ricordare Franco Basaglia</span><br /><br />Esiste una chiave d'accesso per entrare nell'abisso di un battito di ciglia, quel lampo di buio in cui si risucchiano emozioni, si illuminano pensieri? Ogni definizione di quell'attimo genera de-limitazioni, confini inutili che non reggono il confronto con l'immaginario. Ogni de-scrizione della follia, allo stesso modo, significa forzarla in strutture che non le appartengono. La sfida è dunque non crearle ulteriori confini ma lasciarla vivere con la sua intensità e svelarla contemporaneamente con la sua profondità.<br />Un palloncino rosso fa capolino, la scura figurina che lo tiene avanza gracile e dà il via a un'intermittenza di racconti e scene corali, di respiri e di feste. È questo il ritmo, quel "tempo di..." riuscire a respirare un'esistenza che non si può calcolare, né rincorrere.<br />"Ma esiste davvero un luogo dal quale e nel quale agire liberamente?", così si interroga la protagonista a un certo punto in <span style="font-style: italic;">Tempo di smetterla,</span> rappresentazione-rivelazione di frammenti in movimento in cui le risposte giungono dal semplice 'esserci': lei, Luisa Carini, e gli altri attori di Stazioni di Confine affiorano infatti sulla scena in un'altalena di <span style="font-style: italic;">frame</span> tra gioco e poesia come vivide presenze, come corpi brillanti che riflettono mondi lontani. Con la straordinaria guida di Andreina Garella il gruppo esplora da anni la possibilità di un teatro responsabile, che abbia l'urgenza e il coraggio di mostrare le proprie fragilità senza per questo chiudersi in autocommiseramento o autoreferenzialità, anzi spalancando finestre di universi inesplorati sulle pianure della razionalità.<br />Giungono insieme a questo spettacolo dopo essersi fermati nelle stazioni letterarie di Don Chisciotte, Astolfo, Gregor Samsa e molti altri compagni di viaggio, testimoni d'eccezione di quanto la follia faccia parte della ragione.<br /></div><br />Elisa CucinielloS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-13431066477868783022009-11-26T23:46:00.000-08:002009-11-26T23:50:57.016-08:00C'E' TEMPO PER SMETTERLA?<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Tempo di Smetterla</span> di Andreina Garella<br /><br />Un corpo femminile segnato dal tempo e dalla malattia compare nell'oscurità di una scena nuda. Avanza tenendo tra le grandi mani nervose un palloncino rosso. Indossa il colore dell'istinto e dell'oscurità dell'ignoranza caratteristico della cultura Indiana: il nero. È illuminata da una luce netta, fredda, e ha l'espressione sapiente di chi ha conosciuto la vita, quella vera, e può svelarne i segreti. Ci incanta con i suoi occhi magnetici, e poi ci scopre basiti dalle sue domande: "Cosa potremmo farcene di un'ipotetica libertà se viviamo una vita di inconsce sottomissioni"?<br />Sarà lei a guidarci lungo tutto il percorso di <span style="font-style: italic;">Tempo di smetterla,</span> scritto e diretto da Andreina Garella e messo in scena dai ragazzi del centro di salute mentale di Reggio Emilia e Festina Lente Teatro.<br /> "Il treno ha fischiato" , il viaggio inizia! La musica incalzante spinge in scena personaggi affannati nel tran tran della loro quotidianità. Vestono di bianco e di nero, un chiaro riferimento alla dualità intrinseca dell'uomo. Si scontrano, si incontrano, si salutano e si lasciano.<br />Cambia la musica e come in un déjà vu ci immergiamo in quell'iniziale atmosfera mistica per ritrovare la nostra guida. Questa volta il palloncino rosso lo stringe forte al petto, come fosse un bambino. Ha lo sguardo severo. Vorrebbe sgridarci perché "è tempo di smetterla con la solitudine, con l'indifferenza, con i confini, con i muri, con i divieti di accesso. Bisogna correre, ma poi fermarsi, incontrarsi e sognare perché è il nostro tempo e non ne abbiamo un altro". Gradualmente tutta la compagnia interviene a sostegno di quella che ormai ci sembra una "grande madre". Anche loro pensano che "è tempo di smetterla... e di volare, volare, volare".<br />Nuovamente la situazione si ribalta, ora è tempo di cantare e danzare sulle note di un"cuore matto". Un breve istante per accarezzarsi e sorridere, per sfiorarsi e godere. Un tempo da vivere intensamente, prima di vederlo sparire nella bestialità degli uomini.<br />Uno spettacolo impegnato e impregnato di rovesciamenti finemente orchestrati, che faranno affiorare piccole e grandi verità da gridare a una società sorda. Un bisogno di rivendicare il diritto di essere uomini emozionabili ed emozionati.<br />Andreina Garella ha confezionato un'opera che lascia l'amaro in bocca. Permettendo ai suoi attori di esprimersi liberamente è riuscita a sfondare ogni barriera e ad entrare, senza aver bussato, nell'animo degli spettatori. Muovendo i suoi personaggi con una pulizia scenica tipica dei grandi maestri, non ci ha lasciato dubbi sulle sue scelte registiche. È in questo modo che, partendo dalla via tracciata da Basaglia, muove una profonda riflessione sul rapporto della cultura e della società con la diversità. Un viaggio utopico "nel mondo come dovrebbe essere".<br />Un solo ingombrante enigma ci lacera a fine spettacolo: c'è tempo per smetterla?<br /></div><br />Antonio RacitiS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-42673267139529749692009-11-25T11:03:00.000-08:002009-11-25T11:06:10.974-08:00BENVENUTI TRA I RIFIUTI, NON VI BUTTEREMO VIA<div style="text-align: justify;">Rusco - De rerum natura<span style="font-style: italic;">, liberamente tratto da Lucrezio, di Gabriele Tesauri.</span><br /><br />Quando si avvolge il sipario dello spettacolo <span style="font-style: italic;">Rusco</span>, espressione dialettale bolognese che significa spazzatura, abbiamo già assistito a una performance lirica per nulla trascurabile. <span style="font-style: italic;">I did it my way</span>, dallo storico pezzo di Frank Sinatra, canta a squarciagola il capocantiere sullo sfondo di un vecchio teatro abbandonato e pieno di immondizia. E lo fa alla sua maniera perché ama cantare e non se ne vergogna. Non ha timore del giudizio dei suoi colleghi che lo osservano esterrefatti, non ha paura di essere criticato per un comportamento considerato anomalo, estroso, gaio. Vuole solo cantare e vorrebbe farlo davanti a una platea gremita. Vuole un posto nella società, perché anche lui ha qualcosa da dire.<br />L'interprete, Lucio Polazzi, è un "figlio" della legge Basaglia. È un uomo a cui il Dipartimento di Salute Mentale di Bologna ha dato la possibilità di rimettersi in gioco, di costruirsi una vita sociale. Lucio, insieme ad altri ragazzi con problemi psichiatrici, frequentando un corso di formazione per allievi attori, è diventato un professionista, e insieme ai suoi colleghi ha dato vita alla compagnia Arte e Salute. Uomini "riciclati", rientrati nella società dall'ingresso principale. In Rusco, dopo dieci anni di esperienza sul palcoscenico, li ritroviamo artisticamente maturi, ormai in grado di districarsi in scena con totale autonomia e con una spontaneità disarmante. Nello spettacolo, nato grazie a una forte collaborazione col gruppo Hera, alcuni attori hanno vestito i panni di operatori ecologici e ci hanno raccontato la storia di un emarginato. Un clochard islandese che vive abusivamente nell'angusto teatro che loro dovrebbero ripulire. Islanda, questo è il suo nome, passa le sue giornate smarrito nell'alcool e nell'ozio, e di notte, in preda ad allucinazioni, si ritrova a fare i conti con gli scheletri del proprio passato. Il suo primo giudice, un'imponente e artificiosa "natura", è un essere soprannaturale partorito dalla catasta di spazzatura posta al centro della scena. La nostra attenzione è catturata dalle intermittenze fluo delle luci che, attraverso giochi "mistici" di colore, uniscono il busto della creatura alla scenografia che ora sembra indossare. Una vera "apparizione", un momento di grande teatro, in cui l'azione si arresta improvvisamente per lasciare spazio alle parole immortali del <span style="font-style: italic;">Dialogo della Natura e di un Islandese</span> di Leopardi: la Natura ora sembra rivolgersi a noi. Ci spiega che la terra non è stata creata per soddisfare le esigenze dell'uomo, e ci consiglia di cercare la causa dei nostri mali in quell'ansia di vivere che ci contraddistingue.<br />È a questo punto che ci sentiamo immersi nel torbido mistero da favola noir di <span style="font-style: italic;">Rusco</span> <span style="font-style: italic;">- De rerum natura</span>, dove "nulla nasce da nulla ma tutto viene generato da una distruzione precedente che diventa una creazione nuova", un luogo dove anche gli uomini vengono riciclati, rigenerati.<br />È questo il teatro epico di Gabriele Tesauri, storie dai temi etici narrate con la saggezza dei grandi maestri della filosofia e della poesia, da Epicuro a Lucrezio, e la leggerezza tipica della commedia all'italiana. Un'altalenare costante dal sapore agrodolce. Un gioco di bilanciamento che interviene in tutto lo spettacolo, come quando si parla del razzismo o dell'abuso di potere, del riciclaggio di denaro "sporco" o dell'affitto troppo caro, dell'abbattimento di un teatro o della costruzione di un palazzo, della fede in Dio o della razionalità della scienza. Due facce della stessa medaglia, che insinuano dubbi, che mettono in discussione il vivere della società moderna.<br />La visione di <span style="font-style: italic;">Rusco</span> ci mette in condizione di porci quesiti a cui il regista non vuole dare risposte. Ci suggerisce però che possiamo trovarle guardando il mondo da un altro punto di vista: il proprio!<br /><span style="font-style: italic;">For what is a man, what has he got?</span><br /><span style="font-style: italic;">If not himself, then he has naught</span><br /><span style="font-style: italic;">to say the things he truly feels</span><br /><span style="font-style: italic;">and not the words of one who kneels.</span><br /><span style="font-style: italic;">The record shows I took the blows</span><br /><span style="font-style: italic;">and did it my way!</span><br /></div><br />Antonio RacitiS.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-8235934009077691052009-11-25T10:58:00.000-08:002009-11-25T11:01:36.075-08:00INTORNO ALLA NATURA DEL RUSCO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Tesauri e gli attori di Arte e Salute: il </span>De rerum natura<span style="font-style: italic;"> fra la società dei rifiuti e i rifiuti della società</span><br /><br />È un mondo popolato da curiose creature, quello emerso dalla scoperta di un teatro in disuso e trasformato ormai in discarica. Non appena gli addetti ai lavori si allontanano per organizzare una squadra di recupero e restauro, scopriamo infatti che qualcuno ha fatto di quel luogo apparentemente inutilizzabile la propria dimora, anzi molto di più. Tra una montagna di rifiuti e un fondo di bottiglia si svela uno spazio sommerso dalle passioni e della speranza, in cui ricostruire una vita affrancata da inutili affanni, da dolori, da incuranti divinità. Il passo dalla spazzatura alla filosofia dell'incommensurabile diventa qui incredibilmente breve e si racchiude in un'insolita proporzione: il <span style="font-style: italic;">De rerum natura</span> lucreziano sta all'immondizia come un clochard sta a un filosofo. È infatti soprattutto attraverso le parole del poema didascalico latino che Islanda, un senzatetto, un extracomunitario, confessa il suo allontanamento dalla società degli uomini e dalle loro misere menti e si ritrova a ragionare della natura delle cose proprio in un luogo di abbandono, di scarto.<br />Quando l'insolito abitatore viene scovato dagli addetti al riassetto del teatro, deve scontrarsi con la dura realtà, quella di una società che in egual modo produce e non tollera i suoi stessi rifiuti, siano essi cose o persone.<br />Il percorso che ha portato alla realizzazione dello spettacolo <span style="font-style: italic;">Rusco</span> ha visto gli attori della compagnia Arte e Salute - in collaborazione con il Gruppo Hera - impegnati prima nrlla scoperta degli impianti di smaltimento e recupero rifiuti nell'area bolognese per arrivare poi a confrontarsi con i versi di Lucrezio, quel poeta latino che negli intervalli della propria pazzia richiamava gli uomini al senso di responsabilità personale e alla presa di coscienza della realtà.<br />Il risultato è una piacevole commedia imbastita di testi di canzoni parafrasate, figurine divertenti, ossessioni e apparizioni, in cui il solenne tono virgiliano si affianca a squarci di genuina vita quotidiana, con i suoi modi dialettali (il "rusco" del titolo indica, a Bologna, per l'appunto la spazzatura), le sue scaramucce, le piccole ottusità. Con leggerezza e ironia, lungo il cammino pedagogico iniziato con i suoi pazienti-attori ormai più di dieci anni fa, Tesauri riflette quindi sul senso del 'rimettere in circolo' nelle diverse declinazioni ambientali ma soprattutto sociali, alla ricerca di un equilibrio e di una liberazione da paure, turbamenti, pregiudizi.<br /><br />Elisa Cuciniello</div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-44850182829859798632009-11-25T10:47:00.000-08:002009-11-25T10:52:04.255-08:00IL DOPPIO SPETTACOLO DI ARTE E SALUTE<div style="text-align: justify;"><span style="font-weight: bold;">Lo psichiatra Filippo Renda racconta come è nata un'esperienza artistica con importanti valenze riabilitative</span><br /><br /><span style="font-style: italic;">Il progetto "Arte e Salute" nasce dall'incontro di Nanni Garella con il dottor Filippo Renda. Abbiamo incontrato Renda, esponente di spicco di Psichiatria Democratica ed ex direttore del Dipartimento di salute mentale dell'azienda Usl di Bologna, ora in pensione.</span><br /><br /><span style="font-weight: bold;">Come è nato il progetto che avvicina la psichiatria al mondo del teatro?</span><br />«La prima idea risale a molti anni fa. Intorno al 1980 cominciai a lavorare a San Giorgio di Piano, occupandomi dei nuovi servizi psichiatrici dopo l'approvazione della legge Basaglia del '78. All'epoca avevo creato dei gruppi di discussione con i pazienti, che erano abbastanza aperti, e avevo invitato Nanni Garella, mio amico, a partecipare. Pensavo già alla possibilità di organizzare nuove attività per i pazienti e avrei voluto che una di queste fosse la recitazione. Con Nanni si parlò molto, ma vicende di vita e di lavoro non resero possibile approfondire queste riflessioni e quindi realizzare il progetto. Nanni si trasferì a Brescia, io continuai lavorare a San Giorgio di Piano e nel 1989 divenni primario responsabile del Centro di salute mentale. Nessuno ci crederà, ma una notte, in quello stesso periodo, mi capitò di sognare di Nanni e del nostro vecchio progetto mai realizzato. Lo raccontai ad Angelo Giovanni Rossi, l'attuale presidente di Arte e Salute, che all'epoca era il mio direttore generale e ricontattai Nanni, che nel frattempo era tornato a Bologna. Dopo appena due mesi il progetto prese il via».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">La vostra è stata la prima esperienza di teatro in psichiatria sul territorio regionale?</span><br />«Altre esperienze c'erano già state, un po' ovunque, ma di arteterapia: laboratori a scopo puramente "terapeutico" , che non avevano l'obiettivo di mettere in piedi di una vera e propria compagnia professionale. Noi ci siamo detti che di trattamenti ce n'erano già abbastanza e che la vera sfida era quella di riuscire a far lavorare i pazienti».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Qual è stato il processo di messa a punto e di gestione del progetto?</span><br />«C'è stata una prima selezione di cui ci siamo occupati noi operatori, a cui è seguita una seconda scelta affidata a Nanni Garella, ovviamente basata sulle potenzialità artistiche degli aspiranti attori. Gli operatori si sono occupati, e si occupano, di aiutare i pazienti a raggiungere i luoghi della formazione e svolgono tutti i normali servizi di sostegno e accompagnamento. Una psicologa cura la convivenza e la coesione nel gruppo. Per quanto mi riguarda, il compito che avevo in qualità di direttore, ma che svolgo tuttora, è quello di supervisionare tutte le attività e di risolvere i problemi che via via si possono creare».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Oltre all'aspetto professionale, che tipo di obiettivi si pone il progetto teatrale di "Arte e Salute"?</span><br />«Uno degli stereotipi creati dagli psichiatri, un vero processo di falsificazione della realtà, è la convinzione che il destino naturale dei malati non possa essere altro che la demenza. Non è così, a meno che i pazienti non vengano lasciati a loro stessi oppure, ancor peggio, chiusi nei manicomi o in strutture simili. Se adeguatamente trattate e supportate, invece, queste persone riescono a fare le stesse cose che fanno i cosiddetti "normali". Ovviamente con alcuni limiti, ammesso che i "normali" non ne abbiano. Il primo obiettivo che ci poniamo è quindi quello di dimostrare concretamente la falsità di un simile assunto, che si tramanda immutato fino ad oggi nella storia della psichiatria. I pazienti che fanno parte della compagnia Arte e Salute sono tutti in cura da una decina di anni e mi pare che il risultato ottenuto sulla scena non sia la demenza. Il secondo obiettivo è strettamente legato al teatro: la scena è un potente strumento di comunicazione e possiede un grande potenziale di coesione sociale. Quando si assiste a uno spettacolo con pazienti psichiatrici e attori professionisti, ci si trova di fronte a una manifestazione di inclusione e di cooperazione, a un patto concreto e visibile. è la dimostrazione pubblica del passaggio dalla psichiatria della pulizia della città alla psichiatria dell'inclusione sociale, dai servizi "spazzini" di un tempo a quelli "riciclatori" di oggi. Devo dire che non mi aspettavo risultati di così alto livello artistico, pensavo al massimo di poter girare per teatri parrocchiali; questi lavori hanno superato ogni mia aspettativa. La ricaduta sui pazienti è eccezionale: non guariscono, ma sono molto felici, come capita a chiunque abbia la fortuna di poter lavorare bene».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Come agiscono questi spettacoli sulla percezione dello spettatore? </span><br />«Lo spirito che uno spettatore dovrebbe avere nell'assistere a questi lavori è lo stesso che ha qualsiasi amante del teatro nel godere di una buona regia e di una buona recitazione. A questo valore se ne aggiunge un altro: l'esperienza diretta del lavoro comune agisce sullo spettatore, lo meraviglia, distruggendo gli stereotipi diffusi sulla malattia mentale, il pregiudizio che un "matto" non dovrebbe stare su un palcoscenico. è come osservare un doppio spettacolo».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Oltre al teatro di prosa quali attività sono offerte ai pazienti?</span><br />«Il progetto "Arte e Salute" comprende la compagnia Senza-Sipario del teatro ragazzi, il Teatro di Figura con i burattinai, che ha avuto un'esistenza più accidentata, ma che adesso si sta riprendendo e la Psicoradio. Al di fuori del progetto artistico ci sono altre realtà, ad esempio la cooperativa di ceramica che fondai con dei pazienti molti anni fa, che è ancora lì, viva e che lavora; è l'unica cooperativa della zona fondata da pazienti: il consiglio di amministrazione, tranne il presidente, è interamente composto da pazienti. Esiste anche una cooperativa che si occupa del verde e dei giardini, vari gruppi di auto mutuo aiuto. Questo tipo di attività potevano bastare alla fine degli anni Settanta, quando i pazienti erano per lo più contadini e operai che avevano spesso solo la terza media e pochissimi il diploma di maturità: il progetto di vita che avevano alle spalle era per lo più legato al lavoro manuale. Tutte le cooperative che nascevano, quindi, anche se avevano un'impronta artistica, erano comunque basate sul lavoro manuale. Invece, già dagli anni Ottanta, con l'aumento del grado di istruzione, sono aumentati i pazienti diplomati e laureati, con fallimenti riguardanti progetti di vita culturalmente più complessi. Al fine della restituzione e della realizzazione dei progetti personali, i servizi hanno dovuto far fronte alle nuove esigenze, articolarsi e diversificarsi. C'è stato bisogno di ipotizzare altri percorsi di inserimento e Arte e Salute è la dimostrazione del successo di questa scelta».<br /><br />Alessandra Cava <br /></div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-15633067040890164612009-11-25T10:34:00.000-08:002009-11-25T10:41:31.255-08:00L'ARTIGIANO DELLA REGIA<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Abbiamo incontrato il regista Gabriele Tesauri che, con il suo </span>Rusco – De rerum natura<span style="font-style: italic;">, inaugura il festival </span>DiversaMente<span style="font-style: italic;">. Tesauri, giovane artista formatosi con numerose e diversificate esperienze, ha affrontato la sua seconda regia con la compagnia Arte e Salute formata dai ragazzi del Dipartimento di Salute Mentale - A.u.s.l. di Bologna.</span><br /><br /><span style="font-weight: bold;">La visione della generale di <span style="font-style: italic;">Rusco</span> ci ha dato l’impressione che si tratti di un minuzioso lavoro di “artigianato”, capace di creare una solida e matura opera d’arte.</span><br /><span style="font-weight: bold;">Tu sei regista, ma prima sei stato attore, ti occupi di teatro, ma ti è capitato di fare anche cinema. Perché hai scelto di arrivare gradualmente alla regia?</span><br />«La regia è stata sempre una mia passione, ed è un ruolo che sento appartenermi, ma ho iniziato il mio percorso con la scuola di recitazione Galante Garrone di Bologna, diplomandomi nel 1995. Qualche anno dopo sono entrato a far parte della compagnia Arte e Salute, inizialmente come attore e successivamente come assistente alla regia di Nanni Garella, direttore della compagnia. Credo molto nei registi che arrivano da questo tipo di formazione. È indispensabile conoscere il meccanismo dall’interno per poterlo mettere in moto nel modo migliore. Vedo il teatro come una forma di artigianato, dove ogni tanto avviene un piccolo miracolo per cui un oggetto artigianale diventa un capolavoro, un’opera d’arte appunto.<br />Il cinema invece lo faccio quando mi chiamano gli amici, come Guido Chiesa. È un altro mondo, un altro modo di interpretare questo mestiere e sicuramente se in teatro devi amplificare, nel cinema devi lavorare di interiorità, di sottrazione. Se capiterà continuerò a farlo, parallelamente alla mia attività in teatro, perché credo che l’esperienza sia sempre utile. Il cinema è un’ottima palestra e devo ammettere che mi diverte molto».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Cosa puoi riportarci della tua esperienza al fianco di Nanni Garella?</span><br />«Il mio rapporto con Nanni Garella è iniziato molti anni fa, sui banchi della Galante Garrone dove ero suo allievo. Oggi c’è una grossa stima reciproca. Considero anche Nanni un artigiano, lui viene dalla scuola di Castri e ha sviluppato un modo di lavorare che io ammiro. Nei suoi lavori c’è una grandissima fedeltà al testo. È il testo che ti racconta tutto quello che devi mettere in scena, ed è da lì che bisogna partire. Non da idee puramente teoriche, cercando forzatamente di costringere il testo a quell’idea, a quei dogmi. Nel nostro lavoro devi metterti umilmente a servizio di quei materiali che hai e da lì iniziare a costruire in maniera lineare, in maniera consequenziale. Facendo così, anche la creatività viene rafforzata. Ho imparato molte cose da Nanni, per me è un maestro, e continuare a lavorare con lui è molto stimolante».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Come e quando è nato il tuo rapporto con la compagnia Arte e Salute?</span><br />« È nato come attore, per la messinscena del loro primo lavoro, S<span style="font-style: italic;">ogno di una notte di mezza estate</span> di Shakespeare, nel 1999. L’esperienza è stata intensa e il nostro rapporto si è rafforzato dopo il mio passaggio professionale ad assistente alla regia. La mia partecipazione emotiva al progetto è sempre stata molto forte, e vedendo i risultati di questa operazione e osservando come queste persone sono cambiate, si sono trasformate negli anni, è logico che diventa sempre più impensabile separarsi. Abbiamo condiviso un percorso e oggi ci sentiamo una grande famiglia».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Che tipo di rapporto hai con i ragazzi della compagnia Arte e Salute e come lavori con loro?</span><br />«Fin da subito l’idea di questo progetto era quella di creare una compagnia di professionisti, cioè di lavoratori dello spettacolo. I nostri attori, dopo un corso di formazione di alcuni anni, hanno ricevuto il libretto Enpals, per cui sono dei professionisti e noi ci rapportiamo a loro in modo assolutamente professionale. Non sappiamo fare altrimenti, non conosciamo i metodi terapeutici, per cui ci comportiamo come con tutti gli altri attori, e abbiamo riscontato che questo funziona. Queste persone, alle quali viene data la possibilità di lavorare, hanno un miglioramento della loro vita perché vengono reinseriti nella società, fanno qualcosa di riconosciuto, e fanno anche qualcosa che altri non sanno fare. Tutto questo risulta un valore aggiunto nella socializzazione, quando si confrontano con le altre persone nella quotidianità.<br />Mi reputo fortunato a lavorare con i componenti di questa compagnia. Hanno una notevole capacità di improvvisazione, di immedesimazione nel personaggio, qualità che professionisti usciti dalle scuole fanno molto fatica a raggiungere in breve tempo, e che in loro invece è comparsa immediatamente. Nello stesso tempo posseggono una grande capacità epica, per questo ho messo in scena i <span style="font-style: italic;">Drammi didattici</span> di Brecht, e funziona bene anche Pinter (che metteremo in scena con Nanni questa primavera). Hanno questa epicità, questa scissione, quasi naturale. In loro puoi vedere chiaramente il gioco del dentro e fuori, quel “sono un attore e sto facendo una parte”».<br />Inauguri il festival “DiversaMente” con lo spettacolo Rusco - De rerum natura, liberamente ispirato a Lucrezio. Quale rapporto intellettuale hai con l’autore e con l’idea di «recupero» che è alla base dello spettacolo?<br />«Rusco nasce dalla collaborazione con il Gruppo Hera, e con la voglia di occuparci di ambiente.<br />I nostri ragazzi hanno fatto i reporter e sono andati nei vari siti di Hera raccogliendo materiale. Analizzando quello che avevamo osservato, ci siamo ritrovati tutti colpiti dal processo di riciclaggio dei rifiuti. Un oggetto che viene buttato, attraverso il riciclo e la trasformazione, può essere rimesso in circolo come qualcosa di utile all’interno di un circuito sociale. Abbiamo pensato di partire dall’origine dell’indagine di questo tema e tra i primi c’era sicuramente Lucrezio e quindi Epicuro, con l’idea che “nulla nasce da nulla ma tutto viene generato da una distruzione precedente che diventa una creazione nuova”.<br />Lucrezio, traduttore di Epicuro per i Romani, è stato un grandissimo poeta. È riuscito nel “ gioco” che vorrei fare io, cioè grandi teorie filosofiche portate con una forma poetica che risulti accattivante. Il mio tentativo è quello di tradurre nuovamente queste teorie filosofiche, in una maniera non ammorbante, sì che possano divertire e interessare, e magari anche emozionare».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Sia in <span style="font-style: italic;">Rusco</span>, che precedentemente in <span style="font-style: italic;">Drammi didattici</span>, tramite la compagnia Arte e Salute, hai raccontato storie di vita quotidiana, che rispecchiano i quesiti esistenziali della società moderna. Da cosa nasce in te questa esigenza?</span><br />«Le domande sull’esistenza, o quelle che Brecht proponeva nei <span style="font-style: italic;">Drammi</span> in una visione un po’ più didattica, oppure i quesiti che vengono posti in <span style="font-style: italic;">Rusco</span>, sono argomenti che mi interessano personalmente, perché credo che fare questo mestiere, e quindi fare l’artigianato, è fare qualcosa in cui credi. Per me la forza del teatro sta nel riuscire a dare una visone diversa del mondo, portare il pubblico a porsi dei quesiti che permettano di prendere la vita in maniera diversa. Metterlo in scena con i ragazzi è molto semplice perché loro anche nella quotidianità ti raccontano che si può vivere in un altro modo, rispetto a “quell’ansia del benessere” tipico della nostra società. I miei attori sono sempre lì a dirmi: “Ma che problemi ti fai?”».<br /><br />Antonio Raciti</div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-25484708234277788332009-11-25T10:25:00.000-08:002009-11-25T10:30:57.291-08:00PERCHE' IL TEATRO?<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Arte, salute, società: per comprendere il modo e il valore dell'incontro di queste realtà attraverso l'attività teatrale con pazienti psichiatrici, abbiamo incontrato il direttore del Centro di salute mentale dell'azienda Usl di Bologna.</span><br /><br /><span style="font-weight: bold;">A undici anni dalla nascita del progetto "Arte e salute", che senso ha per il Dipartimento di salute mentale continuare a promuovere un'attività come quella teatrale?</span><br />«Per una struttura operativa della nuova psichiatria come il nostro Dipartimento, l'attività teatrale permette di aprirsi a nuove forme di riabilitazione. Fare teatro svolge infatti un'azione terapeutica, abilitativa e riabilitativa attraverso cui far emergere qualità espressive personali altrimenti oscurate dalla situazione clinica di partenza. Questo perché la crisi psichica non cancella ma oscura delle potenzialità e dei talenti che possono riaffiorare attraverso la pratica artistica. Ma forse la prospettiva più interessante emersa nel continuum dell'attività della compagnia Arte e salute, in più di dieci anni di spettacoli, è di aver costruito un nuovo, determinante contesto di professionalizzazione».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Cosa significa in questo contesto essere riconosciuti professionalmente come attori?</span><br />«Vuol dire poter ricomporre la propria identità sociale e la personale autonomia attraverso il lavoro in campo artistico e intellettuale. E si tratta di un mestiere vero! Non tutti possono arrivare a fare teatro. Le compagnie si formano infatti a partire da un gruppo di pazienti indicati dai colleghi del dipartimento all'interno del quale poi i registi hanno ricercato talenti veri, indipendentemente dalla patologia, per far emergere o stimolare una creatività che in molti casi ha funzionato da incentivo per intraprendere percorsi artistici e lavorativi differenti sulla strada che ognuno ha ritenuto più confacente alla propria espressività».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Le persone con disagi psichici hanno notoriamente una grande pratica di 'allenamento' nei confronti del mondo interiore, un aspetto fondamentale per un certo lavoro d'attore...</span><br />«In proposito mi ritornano sempre in mente due episodi che custodisco come preziosi ricordi. Alcuni degli attori impegnati nelle compagnie sono anche miei pazienti ed è con loro che mi soffermo maggiormente in seguito alle performance spettacolari per complimentarmi e condividere sensazioni e stati d'animo. Ebbene, proprio in quelle circostanze, mi hanno confessato di essere riusciti a vivere, grazie al personaggio, emozioni che altrimenti avrebbero avuto paura a gestire; o ancora, in occasione della rappresentazione di <span style="font-style: italic;">Sogno di una notte di mezza estate</span>, un attore delegava alle caratteristiche del personaggio tutta la sua bravura. In altri termini ciò significa che il processo creativo, inteso come possibilità di giocare altri ruoli da sé, finalizza in senso creativo l'immaginazione e insegna a modulare e gestire le emozioni, a migliorare le competenze comunicative, quindi a interagire in maniera più consona con gli altri. Sulla qualità del percorso artistico di queste persone bisogna naturalmente affidarsi al giudizio del regista Garella, il quale rileva una capacità di modulare sul personaggio qualcosa che appartiene già al proprio io, una chiave d'accesso personale ma efficacissima per lavorare sul ruolo che difficilmente si riscontra negli attori che non vivono gli stessi disagi. "Arte fecondata dalla follia", diceva la Merini...».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Avete riscontrato delle trasformazioni evidenti rispetto alle situazioni critiche di partenza?</span><br />«Certamente. Innanzitutto si assiste a una diminuzione delle situazioni di crisi, ma anche laddove esse continuano a manifestarsi con una certa costanza sono comunque vissute ed elaborate senza rappresentare un ostacolo allo svolgimento della vita quotidiana. In generale si avverte un miglioramento complessivo dei sintomi e dell' "espressività" degli stati depressivi che diventano maggiormente gestibili. Questo vuol dire che non si può parlare di guarigione tout court ma di un aumento di autostima e della qualità della vita in termini di socialità. Proprio come in altre patologie croniche, dunque, il disagio psichico può diventare compatibile con le esperienze quotidiane, imparando a convivere con i propri disturbi.<br />In questo senso all'interno del dipartimento tutti i progetti riabilitativi sono finalizzati al reinserimento in società, nella convinzione che crisi e sofferenza sono sì soggettivamente devastanti ma è la difficoltà di un vissuto all'interno del gruppo sociale a bloccare davvero qualsiasi percorso di inserimento. Attività come Psicoradio, come le cooperative sociali e agricole o l'impegno nell'ambiente sono strategie abilitative che consentono di riprendere le abilità offuscate e attraverso questo processo inserirsi nel mondo del lavoro».<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Negli anni '80 lo psichiatra Ferruccio Giacanelli affermava che tutto il peso della psichiatria risiedeva nelle sue stesse parole, in quei termini che «fissano un frammento di realtà e lo caricano di significato, il più spesso negativo, per cui la gente è abituata a diffidare della malattia mentale».</span><br /><span style="font-weight: bold;">Salute mentale - Salute della comunità: come si coniugano oggi queste due obiettivi?</span><br />«Con l'evento spettacolare e la sua fortissima azione culturale di destigmatizzazione verso gli stereotipi di inaffidabilità, sospetto se non addirittura pericolosità che connotano negativamente la malattia mentale. Non soltanto un effetto benefico su chi fa teatro, quindi, ma soprattutto sui suoi familiari e sulla comunità tutta, sollecitando una nuova sensibilità e la consapevolezza della dignità del paziente psichiatrico, dei suoi diritti di cittadinanza. In una recente ricerca è emerso che quasi tutti i dipartimenti di salute mentale dell'Emilia Romagna svolgevano avevano inserito l'attività teatrale come momento fondamentale nei processi riabilitativi. La rassegna <span style="font-style: italic;">DiversaMente</span> proposta all'Arena del Sole è, proprio per questo, un decisivo momento di condivisione dei percorsi realizzati nell'intera regione. Soddisfatti dei risultati, siamo soprattutto ancor più motivati a proseguire tale fecondo innesto fra prospettive cliniche e saperi extra-medici, culturali, nella convinzione che solo da qui si può partire e continuare a produrre profondi cambiamenti nell'animo umano».<br /><br />Elisa Cuciniello</div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-32000517869830781912009-05-08T02:04:00.000-07:002009-05-12T05:52:45.354-07:00PEZZI DI UN MONDO SPAZZATO VIA<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Il progetto </span>La voce del corpo- Gradus I<span style="font-style: italic;"> si è concluso con lo spettacolo </span>La Vita è Nuova<span style="font-style: italic;"> del l'associazione Gérard de Nerval. L'incontro fra un gruppo formato da giovani attori e studenti che hanno seguito i corsi di arti performative al Teatro Duse e al Circolo Mazzini e il regista Marco Galignano ha dato vita allo spettacolo messo in scena all’Accademia delle Belle Arti.</span><br /><br /></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">La Vita è Nuova</span> ci mette di fronte alla corruzione delle meraviglie del mondo ad opera dell’uomo. Un viaggio a ritroso nel tempo che dalla riunione dei potenti seduti intorno ad un tavolo, ci riporta alle prime forme di vita, gioiose e piene di speranza, tutto ciò con la costante presenza della Vita, che spazza via i pezzi di un mondo ormai distrutto.<br />Il tempo è scandito da corse frenetiche, cadute, salti, con le note di un pianoforte e di musica elettronica che fanno da sottofondo alle parole forse troppo “urlate” dei personaggi.<br />Interessante la resa dell’incomunicabilità degli uomini attraverso discorsi sconnessi e movimenti convulsi, peccato che poi si torni ad un tono quotidiano in maniera troppo repentina, senza soluzione di continuità.<br />A conclusione di tutto un dolce finale in cui la melodia del piano accompagna le parole della Vita, dedicate a tutti gli uomini.<br />La giovane compagnia è molto abile nel legare le diverse forme artistiche che compongono lo spettacolo, con un po’ più di esperienza riuscirà a dominare il pathos che, in questo primo caso, ha avuto la meglio sulla comprensione delle parole dette.<br /><br />Emilia Biunno<br /></div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-22270118371381610432009-05-06T17:36:00.000-07:002009-05-08T02:20:43.044-07:00DALLE VISCERE DELLA TERRA, L'ECO DELL'UNIVERSO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Esse, opera musicata per un'attrice</span>, Gabriella Rusticali/Monica Petracci<br /><br />Ha qualcosa di misterioso e incandescente come la lava di un vulcano la voce di Gabriella Rusticali: fuso viscoso che nasce ad alte temperature al centro della Terra ed effonde, abbondante, in una colonna eruttiva. Il suo è un corpo profondo e oscuro come camera magmatica in cui le parole accartocciate vengono ruminate e impastate per poi ricomporsi in diversi stadi di materia vocale.<br />A farsi carne questa volta sono le musiche di Bob Dylan e Kurt Weill, nonché i testi di Carmelo Bene, Mariangela Gualtieri e Jeanette Winterson. Seguendo le sonorità della chitarra di Vanni Bendi, l’energia della storica attrice del Teatro Valdoca si fonde con le proiezioni di Monica Petracci in <span style="font-style: italic;">Esse. Opera musicata per un’attrice</span>. La grafica cambia ad ogni vibrazione del canto e del suono con immagini che riproducono spazi incommensurabili oppure estremamente noti, le stelle o una spiaggia, un bosco incantato o un cane che corre, non importa.<br />È il ricordo di un mondo lontanissimo che forse non c’è più o magari è sempre in sottofondo, greve e pesante come l’eco del big bang: risonanza penetrante e arcana, sconosciuta o quotidiana, sicuramente sensuale e istintiva come la presenza del cane che sopraggiunge in scena e, ignaro del gioco, vive della spontaneità di una carezza.<br /><br /><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='308' height='258' src='https://www.blogger.com/video.g?token=AD6v5dyZkevMuAxOOd5LXwC5-CqvIQ2SeAMC540zqFhRaKkkF3xxskIcZytwwUTcVSSFEItSK7j_QtskrvTKI6m91A' class='b-hbp-video b-uploaded' frameborder='0'></iframe><br /><br /><br />Elisa Cuciniello<br /></div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-14344352409514529072009-05-06T17:18:00.000-07:002009-05-07T02:38:49.591-07:00EFFIMERO DUETTO<div style="text-align: justify;"><span style="font-style: italic;">Giovanni Scarcella e Lisa De Boit in </span>Ultime Exil<span style="font-style: italic;"> al vecchio TPO bolognese</span><br /><br />Prima di entrare nello spazio della performance, le maschere avvisano il pubblico di stare attenti nel raggiungere il proprio posto perchè “si vede male”. Ma più che essere concentrati a non inciampare su qualche cavo o scalino, lo spettatore viene colto da un senso di angoscia e disorientamento: lo spazio è pieno di nebbia (artificiale). Gradualm<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5ll70irhKi1Se4NcsZRYMnAV3DCZPu09tAiuMmbugpgdTU4_SHE6-o5QL4neLhVVkd0aV_QcJAf6422RFaxGWzS8RrLPfzyvPO04AT2kwdlE36zpTfRuidJncSMGwqDdfc-lYrHMvBdQ/s1600-h/070618_DS_55121.jpg"><img style="margin: 0pt 0pt 10px 10px; float: right; cursor: pointer; width: 289px; height: 192px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5ll70irhKi1Se4NcsZRYMnAV3DCZPu09tAiuMmbugpgdTU4_SHE6-o5QL4neLhVVkd0aV_QcJAf6422RFaxGWzS8RrLPfzyvPO04AT2kwdlE36zpTfRuidJncSMGwqDdfc-lYrHMvBdQ/s400/070618_DS_55121.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5333014083521256802" border="0" /></a>ente si riconoscono i contorni di pochi oggetti scenici, tavolo e sedie, e dei due danzatori posizionati sui lati opposti della stanza. É un duetto esasperato quello di Lisa De Boit e Giovanni Scarcella, nucleo della compagnia italo-belga Giolisu. Il tutto sembra essere sull’orlo di un abisso: l'unica cosa che potrebbe cancellare i tentativi di riconciliazione è la morte. La partitura fisica, un misto tra lirismo, crudezza ed espressione di emozioni, è a tratti schizofrenica, imprevedibile, a tratti fluida e desolata. I due poli della stanza, come un più e un meno, tendono ad attrarsi ma anche opporsi, evocando temi come solitudine, ricerca di luoghi di simbiosi, un possibile sentiero sul quale continuare insieme mano nella mano. La banalità e la monotonia delle tematiche scelte è confermata dallo stesso Scarcella sulla cui maglietta c'é scritto “Today everything seems the same”.<br /><br />Tomas Kutinac<br /></div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-30134137072352170182009-05-06T17:07:00.000-07:002009-05-12T05:48:16.086-07:00DIALOGO IN-INTEROTTO FRA LE ARTI<span style="font-style: italic;">Il primo movimento del Progetto Strategico per riappropriarsi della voce del corpo</span><br /><br /><br /><div style="text-align: justify;">L’accelerazione di vita cui siamo sottoposti ci inietta ritmi e accenti del tutto estranei al nostro essere e provoca lo smarrimento di un corpo che, inconsciamente interrotto, non riconosce più i suoi in-interrotti flussi. C’è una via di fuga? come riappropriarsi dei movimenti interiori, rintracciabili solo nello spazio-tempo intimo dove impeti e sussulti hanno il ritmo dell’eterno?<br />‘Abbiamo solo bisogno di imparare a governare le frequenze’: è limpida la risposta de <span style="font-style: italic;">La voce del corpo</span>, progetto Strategico d’Ateneo ideato da Marco Galignano, regista, attore e p<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1dWXjrDewqKUSKAMirPKQE_uwqDsXV9NLOyGlKZlOb6dZdpmk0Q0kQXdFRv6Eo49Xwv8ZJ5Zwzu00jw92imFmUaeDSMdfYs1vUkYRfYvvr0Z2vpzP-LWG5ZsNtMpC52SSRNnTVypChEQ/s1600-h/7067195794874e8f66a4b1.jpg"><img style="margin: 0pt 0pt 10px 10px; float: right; cursor: pointer; width: 242px; height: 166px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1dWXjrDewqKUSKAMirPKQE_uwqDsXV9NLOyGlKZlOb6dZdpmk0Q0kQXdFRv6Eo49Xwv8ZJ5Zwzu00jw92imFmUaeDSMdfYs1vUkYRfYvvr0Z2vpzP-LWG5ZsNtMpC52SSRNnTVypChEQ/s200/7067195794874e8f66a4b1.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5333012459983162018" border="0" /></a>edagogo che indaga la possibile integrazione tra ricerca medica e aspetti spettacolari dell’arte. Riunendo artisti provenienti dai contesti espressivi più disparati egli ha dato vita a uno straordinario percorso di ricerca, che parte dalla riappropriazione di un uso cosciente di corpo e voce per un ripensamento generale del processo creativo e della pedagogia artistica. Ri-formarsi a partire quindi da ciò che ci è più vicino eppure tanto sconosciuto: il corpo, prima macchina della nostra espressività ormai così confusa nello stridolio di ingranaggi artificiali.<br />I giovani maestri coinvolti nel progetto, tutti gravitanti nel polo bolognese, hanno unito ricerche e tecniche dei loro ambiti disciplinari e sono arrivati a scoprire insieme come l’arte, nel processo che le dà forma e negli ingredienti che utilizza, può essere veicolo per un nuovo benessere psico-fisico.<br /><span style="font-style: italic;">Luogo in-interotto</span> è stato il primo momento spettacolare che ha dato visibilità al progetto e nella multiforme varietà delle proposte ha mostrato come il corpo radiografato o riscoperto, ostentato o destrutturato, può diventare un luogo di contaminazione culturale.<br />Dieci le proposte presenti per la prima serata negli spazi dell’Accademia di Belle Arti, che per l’occasione ha ripreso caleidoscopicamente vita trasformando ogni angolo in uno scrigno di afflati e palpiti tangibili.<br />La danza, in tutte le sue declinazioni, non poteva che essere uno degli strumenti privilegiati per presentare l’indagine sul corpo attraverso gesti e movimenti che lo riconnettono ai suoi meccanismi più profondi, nonché alle leggi dell’ambiente in cui è immerso.<br />È stato così per le opere proposte da Melissa Pasut, tanto nella coreografia <span style="font-style: italic;">Purging</span>, frutto di un’esplorazione dei limiti corporali e i metodi per raggiungerli, quanto nel video <span style="font-style: italic;">An intuitive conversation</span>, in cui la danzatrice entra in dialogo con i segreti ritmi della natura, costanti e imprevedibili, come il mare, ambientazione privilegiata per un passo a due attraverso cui il corpo umano cerca di confrontarsi e adattarsi alle inattese variazioni di onde, riflessi abbaglianti e risacche.<br />Del tutto differente è la ricerca di Simona Bertozzi (compagnia Laudati danza di Bologna), che nel video <span style="font-style: italic;">Terrestre, movement il still-life</span> (regia di Celeste Taliani) costruisce lo spazio attraverso movimenti liberi di vagare nella memoria fatta di casualità non caotica, uno spazio del tempo in cui il corpo riesce ad ascoltare la sua dinamicità, riconoscere il peso e la gravità, percependo il comando primordiale che coniuga volontà e istinto.<br />Nell’indagine del gruppo di ricerca, il rapporto instaurato con lo spazio è anche quello di un gioco, una scoperta, una<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjs40Wd4SffsItkQ_x75q9rTVdNTzCjb3zPnWKWFJKiDLQoHUVy9I4gZ9MjIGrdKX1bHLJHzTLlcKKRKHkUZXIH_SJ8RwXv_wnm_GQF2KB0jhrUuF57U-O3MZvUOIUtzRPYeCSYMzAnnYM/s1600-h/IMG_4308.JPG"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 245px; height: 184px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjs40Wd4SffsItkQ_x75q9rTVdNTzCjb3zPnWKWFJKiDLQoHUVy9I4gZ9MjIGrdKX1bHLJHzTLlcKKRKHkUZXIH_SJ8RwXv_wnm_GQF2KB0jhrUuF57U-O3MZvUOIUtzRPYeCSYMzAnnYM/s200/IMG_4308.JPG" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5333012928539203538" border="0" /></a> violazione in cui il corpo ritrova armonie e disarmonie: così <span style="font-style: italic;">Segue</span>, performance-installazione ideata da Monica Rimondi come sequenza di azioni e reazioni in uno spazio-tempo che, trasgredito e invaso, non possa più ingabbiare entro strutture pre-determinate; o ancora <span style="font-style: italic;">Emil</span>, performance di danza in divenire e in costruzione senza limiti prefisssati, di e con Antonella Boccadamo.<br />Ma non solo danza. Lo spettatore, munito di mappa orientativa, era libero di scegliere il suo percorso o di perdersi dietro ogni angolo, richiamato da un bagliore, un profumo, un’eco lontana di suoni sconosciuti o di venir sorpreso da <span style="font-style: italic;">Anime da cortilaccio</span>, incursioni teatrali proposte da Matteo Garattoni fra le macerie e i frammenti di ricordi abbandonati.<br />Variazione sul tema è anche il corpo come voce, vibrazione. La performance vocale di Rocìo Rico Romero, molto più che un canto, è un’esperienza che coinvolge i sensi in modo totale permeando la stanza e avvolgendo i corpi di sonorità estatiche: l’interazione delle tecnologie con il corpo-voce come altra possibilità di estendere i limiti del corpo e superarli senza perdere la magia di un’emozione viva.<br />E poi ancora installazioni di video arte a cura degli studenti dell’Accademia o le spiegazioni dal sapore <span style="font-style: italic;">new age </span>sulle sincronizzazioni fra tempo e spazio alla ricerca di un ritmo più umano proposte da Giovanna Battistini.<br />Parola d’ordine ‘governare le frequenze’ dunque, come viene ripetuto in <span style="font-style: italic;">Prima forma di cielo</span> , interessante performance che può dirsi sintesi di questo primo assaggio di progetto interdisciplinare. Sulla base di una partitura aleatoria si confrontano e compenetrano cinque corpi performativi (Eleonora Beddini, Marco Galignano, Germana Giannini, Giovanni Scarcella, Silvia Traversi), tra musica dal vivo, canto, proiezioni, flash e voci contraffatte in corpi disarticolati: linguaggi differenti si amalgamano, riflettono sulla densità della carne e la fanno attraversare da più esperienze possibili, creando circostanze.<br />Dal luogo a essa dedicato, l’arte ne esce rinnovata, proiettata nel futuro, contaminata. Atto creativo e studio delle sue intime leggi farciscono l’ideale tavolozza di colori con cui ri(n)tracciare un’unità fisico-emotiva che raggiunge la sua completezza espressiva nello spazio, sia quello geometrico e matematico fatto di pesi gravità e tridimensionalità, sia quello impercettibile della memoria, del tempo fatto di immagini e ricordi.<br /><br /><br />Elisa Cuciniello </div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7883873955317530406.post-66775127180999688532009-05-06T16:48:00.000-07:002009-05-07T03:05:52.517-07:00NELLA BOTTEGA DI SHAKESPEARE<em>Incontro con Valter Malosti e Massimiliano Civica sulle occasioni di sperimentazione offerte dal Bardo</em><br /><em></em><br /><br /><div align="justify">"Shakesp<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgAtHA08Nz19ikAR_s35Hs6IAvX2pvLtutWJ9W3f1oRTjqwK1ey6cXek9MAXqG5_4hpPSqfZb2QRQcpmBcew6W3HVJkr6_ns0maawsulBmSqdRQvi-5Zrqt5JAI5H4RdoQ_dtVCZg-hcg/s1600-h/shakespeare+on+book.gif"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 120px; height: 200px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgAtHA08Nz19ikAR_s35Hs6IAvX2pvLtutWJ9W3f1oRTjqwK1ey6cXek9MAXqG5_4hpPSqfZb2QRQcpmBcew6W3HVJkr6_ns0maawsulBmSqdRQvi-5Zrqt5JAI5H4RdoQ_dtVCZg-hcg/s200/shakespeare+on+book.gif" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5333020588500056946" border="0" /></a>eare è come il mondo, o come la vita. Ogni epoca vi trova quello che cerca e quel che vuole vedervi". Così il critico polacco Jan Kott sancisce l’atto di fede nei confronti del Grande Will, nella convinzione di potersi accostare a un tale universo di valori storici senza tuttavia falsarli. Lo spunto per tornare a riflettere se e quanto questo assunto possa essere ancora valido arriva dal progetto <em>Ri-scuotere Shakespeare</em> che Silvia Mei ha curato per La Soffitta, riunendo alcuni fra i più interessanti allestimenti di testi scespiriani nella scena teatrale italiana: <em>Venere e Adone</em> di Valter Malosti, <em>Riccardo III</em> di Oscar De Summa e <em>Il mercante di Venezia</em> di Massimiliano Civica, tre traduzioni sceniche differenti per le soluzioni drammaturgico-registiche adottate ma vicine in quanto a spoliazione e scarnificazione, rinfunzionalizzazione di dialoghi e azioni. Presso i laboratori DMS abbiamo incontrato due dei protagonisti di queste riletture e ancora una volta rievocare il fantasma del Bardo ha voluto dire entrare in un caleidoscopio di possibilità per scandagliare la totalità dell’evento teatrale. Non solo testi, dunque, e non tanto contemporaneità di temi e valori. Mettere in scena Shakespeare oggi è piuttosto una vera iniziazione, un confronto con una esperienza esoterica, una bottega in cui sporcarsi le mani, mettere in gioco strumenti diversissimi e procedere poi per riduzione e sottrazione. E così Malosti e Civica, pur avendo alle spalle un percorso di formazione diversissimo, si tuffano in Shakespeare e ne escono imbevuti di meccanismi scenici più latenti che paradossalmente proprio quelle parole, scandagliate e ritradotte, fanno scoprire.<br />Valter Malosti, attore e regista pressoché autodidatta, sceglie il sonetto <em>Venere e Adone</em> dopo un <em>Macbeth</em> che non aveva riscosso grande consensi e parte proprio dalla possibile difficoltà di lettura dei diversi piani espressivi di quello spettacolo per concentrarsi sul testo come banco di prova di un lavoro musicale su lingua e corpo.<br />Schizofrenica, invece, la formazione di Massimiliano Civica, in un’oscillazione tra sperimentazione e tradizione, che nel suo lavoro si coniuga in una tradizione del nuovo, in cui quindi nessuna delle due esperienze esce privata di essenzialità, permettendo anzi una ricomposizione del significante che porta a una fondamentale decriptazione del <a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBHc5nQVESbTTN7PAdSrzWQguv9tlo3mpwEeReRWBUWrFLx14DUPPjGwxOTK_OaNrzopNgCdd7TURedZo2a1KkYUebD9V-GBJ4bjjvkY-UD-PCp59oojRn413KRf9agVzVa5IckJYq6lw/s1600-h/5cmanager5cfoto_grande5cmercante-grande.jpeg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 200px; height: 155px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBHc5nQVESbTTN7PAdSrzWQguv9tlo3mpwEeReRWBUWrFLx14DUPPjGwxOTK_OaNrzopNgCdd7TURedZo2a1KkYUebD9V-GBJ4bjjvkY-UD-PCp59oojRn413KRf9agVzVa5IckJYq6lw/s200/5cmanager5cfoto_grande5cmercante-grande.jpeg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5333020961310740194" border="0" /></a>messaggio e dei contenuti. Nella scena scarna del suo <em>Mercante di Venezia</em> l’espressività è ridotta al minimo, tutti parlano nello stesso modo e a bassa voce, trasportandoci nella successione di una litania, quasi in una preghiera.</div><div align="justify">La nuova scena italiana non esita a porsi tra le fila dei grandi che hanno sperimentato soluzioni linguistiche ed estetiche innovative a partire da testi secolari come quelli del Bardo, rinnovando così il sospetto che fra gli spazi bianchi delle pagine shakespeariane si nascondessero altre lettere che ri-composte ri-cucirebbero anche un pensiero sulla vita e sul teatro, in genere stritolato e sgranato negli ingranaggi della storia.</div><div align="justify"> </div><div align="justify"><br />Elisa Cuciniello</div>S.O.S. Teatrohttp://www.blogger.com/profile/10449924539483127461noreply@blogger.com0